- Argomento: Storia
Il Settecento è il secolo di complesse vicende politiche. In seguito alla pace di Utrecht del 1713, la Sicilia, crollata la dominazione spagnola, venne assegnata al Duca di Savoia Vittorio Amedeo II (1713-1720), che vi assunse il titolo di Re.
Poi gli Austriaci occuparono le fortificazioni, le città principali e Palermo il 13 maggio 1720. Così l’Isola, pur rimanendo con la sua autonomia, si trovò unita al regno di Napoli sotto il nuovo Re Carlo VI anche imperatore d’Austria. Infine, si ebbe il passaggio alla dinastia dei Borboni di Napoli: da Carlo III che diverrà sovrano della Spagna nel 1759 al brevissimo regno di Francesco II (maggio 1859-febbraio 1861). La Contea nel 1722 venne riconcessa agli Henriquez-Cabrera e l’investitura del conte Pasquale avvenne nel 1729. Il 16 aprile 1777 ricevette il titolo di signore Giuseppe Alvarez Toledo de Coldera a nome della moglie Maria del Pilar Teresa II di Gaetana.
Un succoso brano desunto dall’opera di Guastella. L’antico carnevale della Contea di Modica offre notizie sull’arretratezza viaria che saranno confermate dai viaggiatori stranieri in Sicilia alla fine del ‘700: «Il pittore o il naturalista o l’archeologo, al quale, cent’anni fa, saltava il capriccio di visitare l’interno della Sicilia, era uopo che vi si accingesse, con quel rassegnato coraggio di chi si accinge alla esplorazione dell’Africa. Quando difatti non venia sequestrato, o svaligiato dai ladri, quando non ruinava in fondo a un burrone insieme ai muli della lettiga, quando non era inghiottito sino al collo da qualche trèmula infida[1], potea ringraziare San Giuliano, che, come ognun sa è il Santo Patrono dei viaggiatori scapati…»
Sicuramente non gli era sfuggita la meravigliosa opera Voyage in Sicile (Parigi, 1788), in cui l’archeologo francese Denon, evidenziando più volte l’assenza di strade lungo il suo percorso, ad un certo momento dice: «ci inerpicammo per sentieri tortuosi e scoscesi, che non si possono certamente chiamare strade».
In compenso i lavori di ricostruzione ricevettero un impulso incredibile e inarrestabile: sorsero dalle macerie del terremoto palazzi e chiese grazie al ruolo dei capimastri, degli scalpellini scultori, degli intagliatori di motivi decorativi, protagonisti che affiancavano spesso gli architetti e gli ingegneri, ma che altre volte diventano progettisti: così Paolo Nifosì che con dovizia di particolari ha ricostruito la fisionomia dell’architettura e della scultura iblea, prendendo in esame le opere realizzate a Modica, a Ragusa, a Scicli[2]
Le sciagure, tuttavia, continuarono a flagellare il popolo e il territorio. L’epidemia tifoidea agli inizi del Settecento solo a Modica provocò 6000 vittime su una popolazione di 18.000 abitanti. Un evento di certo estremamente drammatico. Informazioni dettagliate provengono dall’opera di Francesco Matarazzo, sacerdote e protomedico della Contea, De epidemica lue. Scienza medica e devozione mariana della crisi del 1709 a Modica (pubblicata a Palermo nel 1719), dove lo studioso analizza cause e rimedi. Lo scritto, tradotto dal latino da Giuseppe Raniolo, contiene la prefazione di Corrado Dollo, allievo del filosofo modicano Carmelo Ottaviano e studioso della filosofia delle scienze. Arricchente la postfazione dello storico Giuseppe Barone sulla figura e l’opera, di Vincenzo Mirabella.
Modica, città-capitale amministrativa e giudiziaria del distretto, ha una vivacità culturale che si esplica sul piano della ricerca scientifica. A parlarne è Corrado Dollo, il quale, puntando l’attenzione sulle “Accademie” – “i templi della conversazione” -, evidenzia il ruolo svolto dall’accademia modicana degli “Affumicati”, poi “Infocati”. Vi si incontravano uomini di cultura, laici e religiosi per discutere e condurre esperimenti. L’accademia gesuitica se ne distingueva giacché rilasciava lauree in teologia o filosofia.
Francesco Matarazzo, che per quanto possibile effettuava le “autopsie” fisico-mediche, e Tommaso Campailla si incontrano sulla diffusione del cartesianesimo.
Estremamente interessanti, dice Dollo, le testimonianze di Matarazzo sulla quotidianità nella Contea con riferimento alla condizione dei malati, dei moribondi e dei sopravvissuti nel corso della malattia. Devastanti gli effetti descritti con perizia e apprezzabile l’impegno di medici che, in gran parte privi di reali mezzi di controllo, “affrontavano e indirizzavano la lotta contro l’epidemia per la sopravvivenza dei non fortunati cittadini”.
Da Tommaso Campailla (1668-1740), le dottrine cartesiane furono esposte nell’Adamo: il poema pedagogico in 11.225 versi che consente di saggiare il livello di ricezione della cultura filosofica e scientifica nel territorio ibleo, mentre il volume Filosofia per principi e cavalieri, pubblicato a Siracusa nel 1841, ne sintetizza le più importanti argomentazioni. La strutturazione dell’opera, pubblicata in diverse edizioni che vanno dal 1709 al 1783, è costituita di venti canti, il cui fondamento è appunto dato dalla filosofia cartesiana che si manifesta a partire dal canto primo, quando Adamo, cominciando a meditare su sé stesso, si serve del procedimento dubitativo-psicologico fino a convincersi dell’esistenza di alcune verità primordiali da cui derivano le conoscenze.
È l’Arcangelo Raffaele, guida e maestro, che soddisfa l’interesse di Adamo a conoscere: la propagazione della luce e le macchie solari, la descrizione della via lattea e dei pianeti sono gli argomenti di geografia astronomica di cui si materia la poesia dell’Adamo, unitamente a questioni di anatomia delle piante, dell’organismo umano e delle sue malattie. L’ammissione del vuoto e di rudimentali convinzioni atomistiche l’allontanò poi da Cartesio. Per questo il Muratori lo chiamò il “Lucrezio cristiano”. E Berkeley l’aveva già apprezzato con le sue due lettere scritte in latino: la prima da Messina nel 1718, la seconda da Londra nel 1723.
Non c’è dubbio che la cultura modicana dimostrava di essere spiccatamente sensibile alle questioni scientifiche, e ciò risulta anche dall’attenzione rivolta alla cura della sifilide e di altre malattie mediante la stufa fumigatoria: una botte ricoperta di calcestruzzo all’esterno e capace di contenere una persona che vi respirava esalazioni di persolfuro di mercurio misto ad incenso: metodo questo conosciuto da tempo, ma rivisto da Campailla che vi aveva introdotto delle innovazioni. Delle altre opere di Campailla meritano di essere considerate L’Apocalisse dell’apostolo Paolo (poema teologico in sette canti), Dell’incendio del monte Etna, Considerazioni sopra la fisica di Newton, conosciuta quando Berkeley nel 1723 gli aveva inviato in dono i Principia Mathematica.
Tra i personaggi ragusani ricordiamo appena Anselmo da Ragusa (1716-1776), frate cappuccino missionario in India nel 1750. A Kathmandu nel 1758 divenne il settimo responsabile della “Missione Tibetana”; dopo undici anni, nel 1769, sollevato dall’incarico per la salute cagionevole, ottenne il permesso di fare ritorno nel luogo natio (la città l’ha ricordato intitolandogli una strada: “Via Padre Anselmo da Ragusa”). Va altresì nominato Matteo Battaglia (24 febbraio 1700 -
28 marzo 1777), nato nella giurisdizione parrocchiale della chiesa madre di San Giorgio. Genitori Mario e Filippa Lo Castro. La formazione, nonché la sua attività artistica si situano nel periodo della ricostruzione della città dopo il terremoto. E già ragazzo aveva coadiuvato, prima come apprendista, collaboratore e poi socio, pittori operanti a Ragusa: “Coevo a Giuseppe Manoli, ragusano attivo nei primi tre decenni de Settecento, a cui si devono interventi documentati nella chiesa di San Francesco all’Immacolata”[3]. Pale d’altare e affreschi le sue migliori opere su commissione da parte di ordini religiosi e procuratori delle chiese. Amorevole l’attenzione al gusto locale del paesaggio resa vivace dai pregi coloristici ancorché convenzionali i temi rappresentati[4].
I primi trent’anni del Settecento, e oltre, furono di espansione demografica ed economica. Il marchese De Gregorio, governatore della Contea, fece le ultime concessioni portando a compimento la lottizzazione delle terre col risultato di nuove opere di bonifica, di rotazioni agrarie più innovative, di nuove piccole e medie proprietà. Crebbero gli allevamenti e si intensificò il commercio via mare. Malgrado l’esosità di tasse e di gabelle, non furono assenti sporadiche iniziative di tipo industriale: dai palmenti ai trappeti alle tonnare: «una delle quali, a Mazzarelli, promossa dal palermitano Andrea Valsecca, un’altra, di minore dimensione e non sempre utilizzata, tra Casuzze e Punta di Mola, dai marchesi Celestre, trappeti per la spremitura delle cannamele e la produzione di zucchero»[5]. Il conte di Comiso Baldassare Naselli, intorno al 1723, realizzava sull’Ippari una cartiera (distrutta da un incendio nel 1844), che dava lavoro a operai prevalentemente genovesi, a donne e ragazzi del luogo. Con l’uso di macchine messe in funzione dall’energia idrica, diverse inoltre le attività promosse: produzione di stoffe, panni, lini, pasta alimentare, sapone duro detto anche alla “messinese”, pentole di creta, lavorazione delle pelli. Un quadro dinamico, dunque, si configurava con notevoli sforzi di rinnovamento. L’agricoltura, unitamente al comparto zootecnico, conobbe un pieno sviluppo; i vigneti, i carrubeti, gli uliveti si espansero, mentre valenti artigiani svolgevano con maestria il loro lavoro per soddisfare le esigenze della campagna.
Oltre alle epidemie, ricorrenti le carestie. Pesante quella del 1763 cui non furono estranee operazioni speculative sui grani: causata da una prolungata siccità, interessò non solo l’Italia centrale e meridionale ma anche i nostri paesi, rendendo scarso il frumento al punto da utilizzare l’orzo per il pane. Così riferisce padre Samuele Nicosia nelle Notizie storiche su Chiaramonte:
… sappiamo che non pochi qui morivan di fame, e che nella bocca dei morti si trovava erba cruda e selvatica. Il frumento si vendeva ad onze 10 la salma, la siccità accresceva la desolazione, ed un male epidemico, per cui morivano sino a 10 persone al giorno, vi mettea il colmo. Nell’anno seguente fuvvi copioso raccolto; però al primo di maggio si vide comparire la febbre che diceasi “maligna”, la quale in pochi mesi condusse al sepolcro 600 abitanti
La nomina nel maggio 1780 a viceré di Domenico Caracciolo, marchese di Villamaina, favorì in Sicilia una prospettiva di respiro europeo, avendo egli avuto rapporti con molti dei maggiori rappresentanti dell’illuminismo.
Difficili, comunque, gli ultimi anni del secolo nella Contea: «Alla fine del ‘700 –, ha scritto Giuseppe Miccichè, – motivo di forte preoccupazione fu la presenza del “morbo nero”, che investì i vigneti di diverse contrade e più in particolare quelle del vittoriese, producendo gravi danni. Per fortuna il morbo non durò a lungo e presto il ritmo della produzione tornò alla normalità».
Federico Guastella
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[1]È una frana argillosa (n.d.a.)
[2]. Nifosì, G. Leone, Mastri e maestri nell’architettura iblea, Note introduttive Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino, Camera di Commercio Industria Artigianato ed Agricoltura di Ragusa, 1985.
[3] A. Ottaviano, Le opere di Matteo Battaglia. Pittore e freschista ragusano del Settecento, in bimestrale “Ragusa Sottosopra” (Parte prima n. 5 Settembre-Ottobre 2010; parte seconda n. 6 novembre-dicembre 2010).
[4] Sull’altare maggiore della chiesa di San Giuseppe, a Ibla, è posta la pala “Sacra Famiglia delle ciliege” (1779). Degno di menzione il grande ovale sull’altare maggiore della chiesa di San Giovanni Evangelista a Modica, che raffigura “San Giovanni a Patmos”. È nei soffitti lignei delle chiese di San Giacomo, di Santa Lucia, di San Vincenzo Ferreri (ora sala convegni), che si rivela un vivace, splendido apparato scenico di ghirlande di fiori e di frutti (G. Flaccavento, Pittori della Contea di Modica della seconda metà del settecento, “Tabellarius”, Numero Unico Giugno 1978, edito dall’Ente Provinciale per il Turismo di Ragusa.
[5] G. Miccichè, Economia e sviluppo in terra iblea, Tip. Barone e Bella, Ragusa, 2014.