Poesia di profonde riflessioni morali, esistenziali, storiche, questa di Rodolfo Di Biasio in Mute voci mute (Ghenomena, 2017), ci giunge come la dimostrazione sofferta del nostro status di vittime sacrificali di una civiltà e di un progresso che uccidono, così come accade nel "mondo storto" di Mauro Corona, il racconto drammatico sull'umanità che soccombe alle false lusinghe di una realtà che non promette nulla di buono, che nulla garantisce se non la tragedia della fine dell'uomo.
Il poeta escogita la soluzione dell'innesto, sorta di trapianto di trascorse immagini esistenziali, pagine antiche di storia nella pagina convulsa e incerta della realtà contemporanea, come per un raffronto che rafforzi e perpetui il destino crudele della stirpe umana; e ciò affinché il lettore riceva e raccolga le suggestioni di un tempo remoto che sembra provenire dallo stesso DNA del poeta, il quale, in questo modo, ha fatto sì che sul binario dell'esistenza scorrano parallele le "sue" varie età della vita, ma anche del suo lungo percorso poetico, che nel tempo ha dato luogo a una forte componente civile che ha profondamente connotato la sua poesia, certamente "fra le più alte dei nostri anni [...]", come ebbe a definirla il grande Giuliano Manacorda.
Tutto ha inizio a partire dalla Seconda guerra mondiale (Rodolfo Di Biasio è del 1937), e tutto viene recuperato attraverso il suo scorrere nel tempo e nel confronto con le varie tappe cronologiche che riguardano il percorso di vita e di esperienza del poeta. Forse per accertare quanto di noi è rimasto, oggi, nella cruda realtà e quanto il canto del verso di ieri sia simile nel quasimodiano "urlo delle madri" e negli umori, al verso che si apre alle tematiche contemporanee e alle grandi problematiche che coinvolgono il mondo intero. Insomma, una verifica - lo ripetiamo - sulla "perennità" della poetica ovvero della persistenza delle immagini esistenziali che hanno alimentato la poesia dell'esordio. Quanto del tempo trascorso continua a incidere sulla poesia del tempo attuale? L'uomo non cambia e non cambia la sua storia e non cambia il verso, - il percorso - della poesia, che guarda con l'occhio del tempo ed è il grido del vittoriniano "mondo offeso".
Ecco, su questo grido del mondo offeso ha saputo lavorare Rodolfo; e ciò a dimostrazione che se la poesia è foscolianamente eterna, non è soltanto per la bellezza dell'armonia, ma perché vive del DNA del dolore del mondo e della Storia e perché proviene dalla biologia malata del mondo, là dove è già la radice del soffrire. Sì, l'elegia dei ricordi lontani, l'infanzia mai avuta, lo spettacolo della cainizzazione dell'uomo, la bestialità del fratello sul fratello.
La richiesta e la preghiera del poeta ottuagenario è dimenticare il castigo di essere stati depredati del conforto della pietà o della pietà "che non si fa misericordia".
Questa poesia, dalla forte voce interiore, ha l'intonazione di una preghiera che invoca la grazia per i disgraziati della terra che non conoscono requie, così come quando si pregava agli inizi degli anni Quaranta sperando in un approdo di pace e nella benedizione del Cielo che si rivelava nella provvidenza di un tozzo di pane che sfamasse almeno la prole.
C'è un progetto preciso all'origine di questa poesia: anzitutto la sua spiritualizzazione, possibile attraverso il ripercorrere la storia del mondo con gli occhi e il cuore della pietà che allora il mondo non ebbe o non volle avere, lasciando che tutto finisse nelle fauci spietate della Storia matrigna.
Un passato che Rodolfo Di Biasio torna a rivivere da ottuagenario, con gli occhi spaventati dell'infanzia, così che oggi egli può essere tutti i bambini di allora, ma allo stesso tempo tutti i bambini del nostro tempo, quelli che patiscono lo strazio dell'hobbesiano homo homini lupus. Nessun santo Francesco, nessun Poverello oggi può ammansire i lupi della terra: famelici, che si appagano, spietatamente saziandosi, del sangue dell'innocenza, lungo una geografia che non conosce confini. Qui, la guerra degli anni Trenta-Quaranta non è che tutte le guerre del mondo; e i bambini, vittime sacrificali di allora, sono allo stesso tempo quelli di oggi e saranno quelli di domani, così come lo furono quelli del lontano passato, che vive nella primordialità dell'uomo, così che la primordialità torna a contaminare il nostro presente nel quale si inneggia ipocritamente e politicamente alla civiltà e al progresso del mondo, con occhi ciechi al dolore e alla disperazione per la guerra totale. Una riflessione liricamente accorata sulle piaghe bibliche del mondo: pestilenze, esodi, carestie, delitti.
Insomma, la storia delle afflizioni dell'umanità permane nei secoli attraverso lo stravolgimento della storia dei popoli, sui quali si leva da queste pagine come una monodia all'afflizione di un canto di pena e di rimpianto per un bene perduto e da qualche parte, in qualche Eden, un tempo esistito.
Oggi viviamo la condizione e la colpa degli untori: l'inquinamento da malcostume; e ci tappiamo le orecchie al grido disperato che l'uomo della strada scaglia come un sasso contro l'indifferenza e il tornaconto dei signori della politica che affondano il deretano nelle poltrone del Potere e dei vitalizi – bontà loro! Le nuove generazioni boccheggino pure! Il male e il malessere si leva sugli innocenti come il fumo nero del recente rogo di Pomezia. Un'allegoria per dire dell'inferno del mondo: "Viviamo una terra/dove il vento/in un buio cielo soffia/plastiche una ferrosa polvere/e a folate intristisce pini marini".
I poeti hanno di queste veggenze, che però si spengono nell'indifferenza sorda e sordida dei tanti venditori di inganni che affidano alla propria svalutata parola - parola infida! - nientemeno che l'avvenire del mondo!
Rodolfo Di Biasio ha saputo intrecciare i ricordi con la Storia, ritornando alla tradizione alta della grande poesia civile, sia pure attraverso le note toccanti dell'elegia.
Giovanni Occhipinti
"Mute voci mute": come una minaccia biblica nei tempi dell'uomo
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