- Autore: Massimo Frasca, Dario Palermo
- Editore: Edizioni di Storia e Studi Sociali
- Titolo: Le Civiltà egee alla scoperta dell’Occidente
Viaggi, esplorazioni, colonizzazioni, in un volume di Massimo Frasca e Dario Palermo (EdS)
Il 21 novembre 2019 il prof. Massimo Frasca (Università di Catania), ospite di Archeoclub d’Italia, ha presentato a Ragusa questo nuovo volume di archeologia e storia del Mediterraneo, scritto insieme al prof. Dario Palermo (Università di Catania), edito da Edizioni di storia e studi sociali di Giovanna Corradini. Relatori sono stati l’archeologo prof. Giovanni Distefano (Università della Calabria e Roma Tre) ed Enzo Piazzese, presidente di Archeoclub sezione di Ragusa.
È stata una conferenza interessante, in cui si è potuto approfondire il complesso discorso sugli intricati rapporti tra Levante e Occidente, tra mondo egeo e cretese e Sicilia in particolare, dall’Età del Bronzo all’età storica.
Il volume ospita due saggi. Quello proposto da M. Frasca si intitola Le città alle foci dell’Ermo: Cuma, Smirne, Focea e l’Occidente, quello di D. Palermo è Creta e la Sicilia. Vite parallele di due grandi isole del Mediterraneo.
Nella Nota introduttiva i due studiosi mettono in chiaro come il Mare Egeo sia stato la culla di fiorenti civiltà come quella minoica, che – com’è noto – fu la più antica civiltà urbana dell’Occidente e come essa sia stata caratterizzata da una forte componente anatolica, irradiatasi da Creta prima verso le terre circostanti, dando un forte contributo alla formazione della Civiltà micenea, e poi anche verso Occidente. Dall’Asia Minore Lidi, Persiani, Frigi si incontrarono presto con popolazioni greche come Dori, Ioni ed Eoli. Da questi incontri culturali, sociali, economici, vennero presto esigenze di espansione commerciale e frequenti traffici che portarono le città che via via si andavano formando a fondare colonie.
Da una parte è il caso di Focea, Cuma eolica e Smirne, tre poleis dell’Asia Minore, che avevano in comune la posizione geografica attorno al fiume Ermo, una ubicazione felice che determinò il loro veloce sviluppo e che erano accomunate pure da storia, tradizione e miti. Fu forte, quindi, la spinta ai viaggi, da cui presto derivò anche la fondazione di colonie. Cuma eolica fondò la più antica colonia dell’Ovest, Cuma campana, appunto, fondata insieme ai Calcidesi dell’Eubea. I focei fondarono Massalia (odierna Marsiglia) ed Elea (in Campania); gli stessi focei intrattenevano allora intensi rapporti con Tartesso (presso Cadice), città dell’attuale Spagna, abitata dai Fenici. D’altro canto, Rodii e Cretesi fondarono Gela, in Sicilia, nel 689 a.C. e a sua volta Gela più tardi fondò Akragas (Agrigento), lungo la rotta marittima che già era stata tracciata da commercianti micenei e fenici e che del resto era pure punto di partenza per la Sardegna e l’estremo occidente europeo.
Cuma eolica era anche detta Friconide (dal monte Fricio, nella Locride di Grecia) da cui provenivano parte dei coloni che l’hanno fondata con gli Eoli (Aioloi, “vari, mescolati”) e altri greci intorno al 1050 a.C. Ma i cumei facevano risalire la loro origine agli Atridi del Peloponneso, discendenti di Pelope, figlio di Tantalo (che era originario della Frigia), la cui tomba si trovava a Smirne. I greci “vari” colonizzarono un territorio che si diceva fosse stato abitato dalle Amazzoni. Secondo Erodoto, l’Eolia si estendeva da Smirne fino a Pitane (a sud) sulla costa del Golfo Eleatico; e per la fondazione di Smirne Cuma ebbe un ruolo molto importante. Ma presto le vicende di Cuma si intrecciano anche con quelle della fondazione di Focea. Frasca cita il racconto che di questa fondazione fa Nicola Damasceno, che cita il poema perduto Foceide che in antico si attribuiva ad Omero e che più probabilmente andrebbe attribuito ad una scuola di aedi chioti, i Testoridi, che facevano riferimento ad un capostipite foceo. Seguendo questa linea, pare che un gruppo di coloni greci (Focidesi-Orcomeni, Ioni e Peloponnesiaci) sia sbarcato su un isolotto alla foce dell’Ermo. Presto i greci dovettero combattere contro i “barbari” locali, provando a fortificare l’isola trasformata in penisola, dovendo però affrontare l’opposizione del tiranno di Cuma.
Per quanto riguarda Cuma, nota Frasca, le fonti ci riportano a notizie coeve all’VIII sec. a.C. ed accennano al basileusTelefane che avrebbe indirizzato l’agricoltura cumana verso coltivazioni arboricole. Si narra poi di un altro basileus, Agamennone (un discendente del più famoso miceneo che ritroviamo nei racconti omerici della guerra di Troia) che diede in sposa la figlia Demodice (altrove indicata come Ermodice) al re frigio Mida (quello famoso perché avrebbe trasformato tutto quello che toccava in oro); siamo tra il 742 e il 738 a.C., e l’oro del mito di re Mida era in effetti un metallo abbondante in quei territori (specialmente in Lidia). Demodice avrebbe dato il via alla prima monetazione in metallo prezioso, l’elettro. In Lidia scorreva un fiume chiamato Crisorroa (“dalla corrente d’oro”).
Ma la ricchezza di Cuma non era solo l’agricoltura dell’entroterra, ma anche la coltivazione di uva ed ulivi, e curiosamente di un cavolo molto dolce chiamato halmyris, che di diceva crescesse solo in certe località della Grecia e dell’Asia Minore. Però non va dimenticato il commercio. Una certa maldicenza degli autori antichi (la citazione diretta è in Strabone) diceva che ci vollero tre secoli prima che i cumei si rendessero conto di avere un porto importante che fruttava loro vantaggi economici di rilievo, ad es. il pagamento dei dazi.
Massimo Frasca descrive ampiamente le vicissitudini della polis, con alti bassi dovuti anche a frequenti terremoti nella zona. Nella seconda metà del VII secolo d.C. la città fu distrutta e abbandonata; fu parzialmente riabitata dai Bizantini nel XII-XIII secolo, infine i Genovesi vi costruirono un castello con materiali recuperati dai ruderi dell’antica città.
Smirne è l’odierna Izmir. Aveva eccezionali condizioni per l’insediamento umano: favorevole posizione geografica all’interno di un golfo e un’ampia pianura. La città greca fu fondata dove esistevano già i villaggi preistorici di Yeșilova Höyük e Yassıtepe, due colline (la prima artificiale) con livelli abitativi risalenti già al Neolitico e poi al Calcolitico. Poi, sulla collina di Tepekule si ebbe la città alto-arcaica di Smirne Vecchia (Bayraklı) di cui poco si conosce. Secondo Strabone, Smirne antica fu abitata in modo sparso (komedon) per circa 400 anni fino alla conquista del re della Lidia, Aliatte, nel 595 a.C.; poi passò al controllo persiano. Infine, una Smirne ellenistica e romana sorse dopo che alla fine del IV secolo a.C. la popolazione abbandonò la collina Bayraklı e si spostò a sud, alle pendici del monte Pago. Intorno al 300 a.C. Antigono e Lisimaco, luogotenenti di Alessandro Magno, diedero inizio alla costruzione della nuova città.
Nessuna precisa indicazione si ricava dalle fonti in merito alla fondazione di Focea, ma si può pensare al X-IX sec. a.C. Il sito è abitato sin dall’Età del Bronzo e poi frequentato dai Micenei; i colonizzatori provengono dalla Focide, in Grecia. Erotodo ci dice che Focea fu la prima città ad essere conquistata dal persiano Arpago, nonostante avesse mura poderose che furono costruite anche grazie alla generosità del re di Tartesso, Argantonio. Focea faceva parte della dodecapoli ionica e partecipò alla battaglia navale di Lade (494 a.C.), capeggiata da Mileto, battaglia che gli Ioni perdettero contro i Persiani. Focea partecipò con sole tre navi ma il comando fu affidato a un suo cittadino, Dionigi, che poi si rifugiò a Lipari.
«Nella tradizione storica – scrive Massimo Frasca – ripresa e in parte fatta propria dalla storiografia moderna, le città confinanti di Cuma e Focea hanno incarnato le due anime della polis greca, la città a vocazione agricola e la città a vocazione commerciale». Ma in particolare Focea era città quasi esclusivamente rivolta al commercio marittimo, proiettata verso il mare, e questo spiega facilmente la fondazione di colonie come Massalia ed Elea, entrambi città che riproducono anche le caratteristiche geomorfologiche della madrepatria. Osserva correttamente Frasca, che il concetto straboniano di stenochoria è un luogo comune, e la fondazione delle colonie con il trasferimento di popolazione non può imputarsi esclusivamente all’angustia dei luoghi ma è certo originata anche da motivi mercantili e desiderio di espansione economica. Motivazioni, per Focea, molto più forti che per Cuma, che tra l’altro aveva un territorio circostante più vasto e produttivo; ma, detto questo, anche Cuma sentiva forse la spinta commerciale e, grazie ad una stretta relazione con gli Eubei, sin dal IX secolo condivideva con i Fenici le rotte commerciali dal Levante all’Occidente. L’autore nota a questo riguardo anche i rapporti con i Calcidesi (anche la vicenda personale di Esiodo, che compì l’unico viaggio oltremare proprio a Calcide), rapporti che consentirono alla città di dar vita a Cuma in Opicia, che, come detto, fu la più antica colonia greca in Occidente.
Cuma Campana, appunto. A metà dell’VIII secolo l’ecista Ippocle parte con i Calcidesi guidati dall’altro ecista, Megastene, arriva in Opicia e fonda l’altra Cuma, città che presto deve confrontarsi con gli Italici e gli Etruschi: nel 524 a.C. deve affrontarne l’assedio, cui seguì la tirannide di Aristodemo sino al 480 a.C. Successivamente il siracusano Ierone (nel 474 a.C.) aiuta la città a sconfiggere gli Etruschi. Dopo questi fatti, Cuma campana fonda la sub-colonia di Neapolis (Napoli). Ma il declino comincia proprio allora e Cuma progressivamente perde il predomino del Tirreno e verrà poi conquistata dai Campani.
La colonizzazione focea in Occidente inizia verso la fine del VII sec. a.C., quando già erano soli i rapporti con Tartesso. A questo proposito, osserva l’Autore, tra gli Eubei, i Calcidesi, «i principali protagonisti del movimento coloniale in Italia Meridionale e in Sicilia, sembrano avere avuto un ruolo di mediatori anche per l’espansione focea in Occidente nel VI secolo».
Massalia (Marsiglia) fu fondata allora anche grazie all’amicizia con il re dei Celti presso il delta del Rodano intorno al 600 a.C.
Elea (Velia, Yela), a quanto ci dice Erodoto fu fondata dai Focei dopo la conquista persiana del 530 a.C., tra punta Licosa e il promontorio del Palinuro. La città eleata fu famosa in particolare per Zenone (quello dei “paradossi”, una delle basi della nascente logica) e per Parmenide suo maestro, che indaga sull’essere e il non-essere, aprendo le basi della filosofia presocratica. Elea è stata scoperta dagli archeologi solo di recente, nel Novecento, ma ovviamente era nota sin dall’antichità come centro di cultura e filosofia.
Sin qui il saggio di Frasca. Segue quello di Dario Palermo sull’intrinseco rapporto tra due delle più grandi isole del Mediterraneo, Creta e la Sicilia.
Si parte dalla fondazione di Gela, secondo Tucidide avvenuta nel 689-88 a.C., ad opera di Cretesi e Rodii. Ma l’Autore mostra come già a partire dall’Età del Bronzo già i Cretesi frequentavano la Sicilia.
Creta in età arcaica fu culla prima della Civiltà Minoica e poi contribuì alla creazione di quella Micenea. Sono note le vicende storiche e archeologiche del palazzo di Cnosso, del mito di re Minosse (Tucidide ne tratta ampiamente) che fu definito il “talassocrate” per eccellenza, il dominatore dei mari (o, almeno del Mare Egeo). Parimenti note sono le vicende del Minotauro, del Labirinto e di Dedalo che lo costruì. E Questo riporta la mente alla sfortunata missione in Sicilia di Minosse alla ricerca di Dedalo, fuggito là, secondo il mito, con ali di cera (il figlio Icaro morì avendo volato troppo in alto, vicino al Sole) per sfuggire all’ira del re. Tutto sarebbe iniziato (secondo il racconto mitologico narrato da Diodoro Siculo, Biblioteca storica, Libro IV) da fatto che era usanza di Minosse dedicare a Poseidone un toro delle sue mandrie e sacrificarlo al dio, ma siccome in quel tempo era nato un toro bianco “più bello di un dio”, il re ne sacrificò uno inferiore e Poseidone adirato fece innamorare Pasiphae, moglie del re, facendola invaghire proprio di quel bel toro. Allora Dedalo, ateniese grande inventore e “ingegnere” del tempo, fece in modo che la regina avesse rapporti con il toro grazie ad uno stratagemma a forma di mucca e lei diede alla luce il Minotauro, di doppia forma, toro sino alle spalle, e sotto uomo. Questo mostro fu imprigionato proprio nel Labirinto costruito pure da Dedalo. Il mostro divorava ogni anno sette giovani e sette fanciulle inviati da Atene. Il resto della storia è nota. Ai fini del saggio di Dario Palermo, è importante sottolineare che Dedalo sarebbe poi andato dal re dei Sicani, Kokalos, presso la capitale Camico. E fu là che i Cretesi lo avrebbero scovato grazie ad uno stratagemma (cfr. Apollodoro, Epitome, I, 15): chiedevano nelle città dove cercavano chi fosse in grado di far passare un filo di lino tra le tortuose spirali di una conchiglia; Dedalo vi riuscì con l’aiuto di una formica cui legò il filo e così si fece scoprire. Si metteva male per lui, ma Kokalos approfittando del fatto che il re Minosse, a capo della spedizione, doveva fare un bagno lo fece morire con l’acqua bollente e i Cretesi dovettero andar via.
Mito, certo, ma che induce ad una seria riflessione sui fatti realmente accaduti, e considerando reperti, analizzati da D. Palermo e altri archeologi tra quelli trovati a Sant’Angelo Muxaro e Palizzello, e di certa fattura cretese, porta a considerare Sant’Angelo proprio come la probabile Camico della storia, e porta a considerare una presenza cretese in Sicilia già prima della fondazione di Gela.
Ma andiamo per ordine.
«Il VII secolo – scrive D. Palermo – rappresenta forse il momento più significativo della storia cretese arcaica». Nell’isola nasce un particolare stile scultoreo che si rifà all’Oriente, agli egiziani, ma anche all’arte greca. Lo stile dedalico, che particolarmente è favorito dalla posizione di Gortyna, in cui sono stati rinvenuti ricchi rivestimenti della stipe del tempio di Athena sull’acropoli, che hanno rivelato il fiorire proprio di questa scuola di scultura i cui prodotti si diffusero in larga scala.
Abbiamo accennato al racconto mitologico di Minosse e Dedalo, ed ora D. Palermo analizza proprio questo in relazione ai rapporti tra le due isole. Dei fatti parla anche Erodoto (Storie, Libro VII). Lo storico di Alicarnasso lega il racconto alle fasi prodromiche alle guerre persiane, quando i cretesi, sollecitati da ambasciatori spartani ed ateniesi, vengono sollecitati a partecipare all’alleanza contro la spedizione di Serse. Essi dunque si recano a Delfi ad interrogare l’oracolo, e la Pizia pronuncia le parole del dio che irride i cretesi come stolti: essi avevano infatti dimenticato che il resto della Grecia non era venuto in soccorso a Minosse in occasione della sua spedizione in Sicilia. E i cretesi rifiutano di partecipare, e questo rifiuto è significativo: indica un allontanamento dell’isola mediterranea dalla Grecia e un «progressivo isolamento» della stessa.
Tornando, alla morte di Minosse in terra Sicana, egli venne seppellito in una doppia tomba, nella cui parte esterna v’era un tempio dedicato ad Afrodite. Le sue truppe si sbandarono, alla di lui morte, riversandosi nel centro dell’Isola, dove fondarono, secondo Diodoro Siculo, Engyon, sede di un santuario dedicato al culto delle Metéres (le dee madri), un culto di origine cretese, basato sul mito di Zeus bambino salvato dalla follia del padre Crono che mangiava i suoi stessi figli, proprio da due nutrici (Elice e Cinosura), mentre era stato nascosto nell’Antro Dicteo a Creta; una volta cresciuto, il padre degli dei le divinizzò facendole divenire le Orse delle costellazioni (la minore e la maggiore, le costellazioni dei Carri). Secondo Diodoro, Engyon va ricercata a partire dalla sua Agira, diciamo tra Enna e Palermo.
Camico (capitale sicana) – nota D. Palermo –, secondo Pugliese Carratelli ed altri, può essere identificata con Sant’Angelo Muxaro, in quel di Agrigento, e là sarebbe stata la tomba di Minosse. Rimandiamo alla lunga analisi del volume per i dettagli, le evenienze e le analogie che lo dimostrano.
Altrettanto interessante è l’analisi del santuario di Polizzello (tra Mussomeli e Villaba), a proposito soprattutto dei culti cretesi in relazione ai luoghi di culto indigeni in Sicilia. La notizia fornita dagli storici sulle Metéres trova conferma in un calendario cultuale che le menziona ad Eleutherna, una delle più importanti città cretesi. Anche qui rimandiamo al testo per gli approfondimenti.
Queste analisi portano l’Autore e noi lettori a considerare una presenza cretese in Sicilia ancora prima della fondazione di Gela.
Il problema è complesso e lungo da trattare in un breve articolo come questo. Dario Palermo guida la nostra attenzione sul ritrovamento di un askós di produzione nuragica in una tomba protogeometrica della necropoli di Cnosso. Si tratta di un manufatto di un periodo in cui erano meno frequenti le relazioni tra Oriente e Occidente, periodo per cui, dice l’Autore, si parlava addirittura di uno hiatus. Questo rinvenimento (un apax, in fondo) ci palesa un quadro di diffusione di materiali di provenienza nuragica, lungo quella rotta mediterranea che all’inverso avevano certo fatto i Cretesi e i Rodii verso la Sicilia e poi la Sardegna. E qui ecco ancora riemergere stretti legami tra Creta, Rodi, Cipro e il Levante ed anche la Cirenaica, tappe intermedie, verso l’Occidente, sino a Huelva, Cadice, e persino oltre le colonne d’Ercole. Già nell’Età del Bronzo a Creta non mancano documenti nuragici e non mancano in Sardegna documenti cretesi. E doveva essere molto percorsa la rotta che va dalle isole Rodi, Karpathos, Creta alla costa meridionale della stessa isola verso la Cirenaica, poi nelle “perigliose” Sirti quindi in Sicilia e di là verso la Sardegna e infine l’Occidente.
A Polizzello viene rinvenuta una oinochoe di fattura molto simile a quelle cretesi di età protogeometrica (seconda metà del IX sec. a.C.), anche se l’esemplare siciliano viene datato VII secolo; forse, secondo l’Autore, bisognerebbe alzare la datazione, almeno al secolo precedente.
Altra domanda che Palermo si pone (ma ce la poniamo pure noi) è: da dove veniva la componente cretese che ha fondato Gela con i Rodii?
I coloni cretesi nel 689 (o 688) giunsero in Sicilia guidati dall’ecista Entimo, ma vi giunsero, appunto, ripercorrendo le rotte dell’itinerario che da millenni chi veniva da terre levantine percorreva per raggiungere il Mediterrano intero e le Colonne d’Ercole (forse oltre). E Gela fu certo l’ultima delle colonie fondate in Sicilia (l’Autore ci invita ad escludere gli sfortunati tentativi di Pentatlo e Dorieo, che comunque non fondarono nulla). Tucidide menziona due ecisti, Antifemo rodio ed Entimo cretese; provenienti da due grandi isole doriche: Rodi e Creta. Ma nessuno dice da quale etnia cretese, da quale parte dell’isola provenissero i coloni. E qui Dario Palermo riporta in scena Gortyna, centro dominante della Messarà nel VII secolo a.C., nello stesso tempo in cui declina la vicina Festós.
Nel 630 a.C. i coloni Therei fondano Cirene (Erodoto ne parla in IV, 145-146), e la presenza cretese a Cirene fu fortissima sempre. Dunque, seguendo l’Autore, la fondazione di Gela e quella di Cirene sono aspetti paralleli di uno stesso fenomeno, la vicenda degli interessi cretesi fuori dalla madrepatria che acquista senso compiuto, segno di una attenzione verso quell’itinerario verso l’Occidente che tocca l’Africa del nord, le coste meridionali della Sicilia e il resto del Mediterraneo.
Akragas, “bellicosa” subcolonia geloa viene fondata (Tucidide, VI, 4,4) nel 580 a.C. da due ecisti: Aristonoo e Pistilo. Qualche archeologo ha voluto escludere la componente cretese, ma alla luce di questo volume è difficile sostenere questa tesi. Anche qui i cretesi hanno un ruolo determinante.
Una serie di rapporti anche diplomatici tengono unite Gela e Akragas ma anche queste città e centri più lontani, come appunto i centri sicani Camico (Kamikos) e Ouessa, ovvero Sant’Angelo Muxaro e la Montagna di Polizzello. Un obiettivo di Gela è anche quello di tenerle nella propria orbita, pensando alla concorrenza di Himera, a nord. Poi c’è Selinunte, città sfortunata, fondata da pochi decenni, stretta tra l’eparchia punica da un lato, e dall’altro dalle pressioni degli Elimi, ma anche dall’espansione geloa. Questa città nel 409 a.C. verrà poi distrutta dai Cartaginesi. Intanto la bellicosità di Akragas contribuirà a far scomparire il centro di Sant’Angelo Muxaro (Camico). Una situazione di floridezza, invece, si rinviene per Polizzello. In questo periodo gli indigeni potevano attingere all’approvvigionamento di oggetti preziosi proprio da Himera. Con la fondazione di Akragas i geloi si pongono in rotta di collisione con Himera. Polizzello, dunque, vive in vicinanza con Himera tra il VII e il VI secolo a.C., poi viene abbandonato fra il 560 e il 560 a.C., dopo essere stato ricoperto da uno strato di terra e pietrame che ha consentito di custodirne i tesori per 2500 anni.
Salvo Micciché