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  • Autore: Vincenzo Cassì
  • Editore: Giorgio Pozzi Editore
  • Titolo: Cantare di Giusto Paladino

Giorgio Pozzi Editore, ad aprile 2021, ha pubblicato l’edizione critica del Cantare di Giusto Paladino, a cura di Vincenzo Cassì.

Cassì, direttore dell’Archivio di Stato di Ragusa, è un filologo formatosi con dottorato di ricerca all’Università di Bologna e poi in quella di Siena e l’edizione critica del Cantare prende le mosse proprio dalla sua tesi di dottorato.

Non sono tanti i testi che si sono occupati, dall’Umanesimo ad oggi, del Cantare, e non è neppure facile definire a quale filone appartiene l’opera. Se lo chiedono, infatti, sia l’autore dell’edizione critica sia l’autore della Prefazione, il prof. Johannes Bartuschat. Seguendo il Crescimbeni, l’ipotesi dell’autore è che si tratti di un cantare religioso attribuibile al filone dei cantari agiografici. L’opera è aderente al profilo di altre simili, in ottava rima.

 

Di cosa tratta il Cantare? In breve, riportiamo la sintesi di Bartuschat: un cavaliere si perde nella foresta, e forse «ha voluto perdersi» come capita ai cavalieri di romani medievali, si addentra nel bosco perché sa che là ritroverà il suo destino, il cammino e sé stesso.

Nella prima parte il cavaliere incontra la dea Fortuna, che ai suoi occhi è responsabile delle sue sventure. La dea è mostruosa, con il corpo costellato da mille occhi e il dialogo nasce dal lamento di Giusto che enumera uomini e donne del passato, illustri e valorosi, saggi e belli, potenti (da Nabucodonosor ad Alessandro, da Aristotele a Seneca). Al lamento risponde la Fortuna che gli svela un segreto amaro: ella ha dato gloria a questi personaggi ed elargito loro dei doni per poi farli precipitare rovinosamente; la morte è un fine crudele e bestiale e ponendosi spesso in modo grottesco ed umiliante rivela senza ombra di dubbio l’inanità delle aspirazioni terrene.

Nella seconda parte del Cantare, Giusto Paladino è ora guarito dalla sua credenza superficiale nei beni mondani, si pente, va in costrizione e si risolve ad abbracciare una vista santa da eremita, e per questo si avventura nel bosco. Cerca la salvezza, ma deve affrontare tante avventure, che sono poi nient’altro che tentazioni del diavolo che gli offre potenza, ricchezza, (vana)gloria, belle ragazze… Gli presenta un demone, sotto forma di eremita, e vuole insegnargli le verità di Fede. E qui comincia una lunga e profonda discussione teologica che si concentra sui punti più difficili del cammino di fede, «con gusto pronunciato per le sottigliezze e i paradossi» – scrive Bartuschat – tra cui il dogma della nascita del Salvatore da una Vergine e la realtà della transustanziazione. Ma il tentativo di far cadere in eresia Giusto fallisce poiché il paladino è fermo nella fede e nella dottrina. Giusto si salva e vive per dieci anni come un vero eremita e viene consolato da un Angelo. Quando muore, quattro aquile bianche trasportano la sua salma a Saint-Denis.

 

I testi, si diceva, non sono tanti. Una delle più antiche citazioni, che seguono i manoscritti tràditi, è quella del cronista veneziano Marin Sanudo (1528), ma poi bisogna attendere il Settecento con il Crescimbeni (1731), Quadrio (1749), Melzi (1838), fino a Ugolini (1933), Cianciolo (1935), Erhard Lommatzsch (1951) e alcuni studi moderni (De Robertis 1961, Cioni 1963, Elisa Miranda 1973, Donà 2007, Iacobucci 2007…)

Vincenzo Cassì ricostruisce con metodo lachmaniano lo stemma codicum, per poter analizzare la tradizione del testo, e sceglie di concentrarsi sul manoscritto BUB 2721 della Biblioteca Universitaria di Bologna (segnato come B), che sembra quello maggiormente importante, ovviamente analizza anche altri ms., come quelli segnati Y, Ph, C, evidenziando che si tratta in particolare di una tradizione bifida, la cui recensio non è facile da analizzare.

Quanto all’autore del Cantare non si può dire nulla di preciso. Si è discusso molto su alcuni versi finali che, tra l’altro, formano un acrostico da cui si legge il nome di “Leonardus de Montebelo”, un personaggio che, molto probabilmente, è il copista (Quadrio, con argomentazioni non molto convincenti, sostiene che sia l’autore). La data dell’autografo è difficile da stabilire, ma non è facile neppure quella del ms. B (e ancor meno quella dell’antigrafo); Si può partire da una affermazione del Crescimbeni che cita una «stampa milanese del 1493» come terminus ante quem. Alcuni hanno scritto essere l’opera del Trecento, ma, correttamente, Cassì propende per la metà del Quattrocento. Nello stesso passo citato (acrostico) il copista dichiara di avere scritto nel 1463, data che si potrebbe in prima ipotesi prendere come terminus post quem; quindi, si avrebbe, credibilmente, una “finestra” 1463-1493.

I punti fermi della trattazione di Quadrio, da cui parte Cassì, sono questi: l’opera non è un romanzo, ma un’agiografia; sarebbe stata composta sulla base della vita di s. Gerlaco (o Jurlac da cui Giusto, come scrive il Quadrio – Della storia e della ragione di ogni poesia – citando Crescimbeni e la sua ricerca in merito); vi sono due testimoni: la stampa milanese 1493 e il manoscritto bolognese che nella parte finale conterrebbe il nome dell’autore. Sulla questione dell’agiografia il Quadrio vide bene, i dubbi vengono sull’accostamento di Giusto (o s. Giusto) a s. Gerlaco (Jurlac?) e sulla nota autoriale. Leggendo la Vita di San Gerlaco compilata dai Bollandisti (cfr. Acta Sanctorum Ianuariie Biblioteca Sanctorum 1965) non si rinvengono molte analogie tra Giusto e s. Gerlaco, «si tratta – scrive Cassì – di analogie poligenetiche, poiché riguardano schemi e topoi tipici della letteratura agiografica», ma nulla di più. Un accostamento da rigettare, anche perché si dice che s. Gerlaco morì intorno al 1165. Ora, anche volendo cercare un santo dal nome Giusto, la ricerca non dà buoni frutti, perché santi con quel nome ce ne sono diversi, e quasi nessuno si accosta alla descrizione di Giusto Paladino. Tutte questioni aperte, come quella della datazione.

Il metodo che Cassì si propone nella parte introduttiva è questo: analizzare gli aspetti letterari, studiare le fonti e i materiali poi confluiti nel Cantare; concentrarsi sulla tradizione e sulla fortuna; analizzare la storia della stessa tradizione e quindi classificare i testimoni; studiare il manoscritto bolognese (B) e procedere all’edizione.

La prima parte del libro tratta la struttura diegetica e la Dea Fortuna e poi passa all’analisi di Exempla e delle tradizioni letterarie. La seconda parte è dedicata allo studio della tradizione e si occupa approfonditamente dei testimoni e del manoscritto B, cui segue una notevole discussione ecdotica. La terza parte è l’edizione del testo, in cui, per dichiarata volontà dell’autore, si dà molto spazio all’apparato.

È un volume di 486 pagine, con un’ampia sezione bibliografica che si pone in modo agile per il lettore, nonostante la profondità del tema e dei tecnicismi filologici, una pecca, a nostro avviso, è la mancanza di un indice analitico che avrebbe aiutato il lettore a trovare più facilmente autori e spunti di discussione. L’edizione ci sembra molto dettagliata, ricca (soprattutto nell’apparato, ma anche nella discussione generale), ed ha il pregio di riportare alla luce un Cantare interessante, certamente pari ad altre opere simili – si pensi al Cantare dei Cantari–, solo meno nota di quelli nati sul filone della Chanson de Roland che narrano di Paladini più famosi.

Bene ha fatto Vincenzo Cassì a proporre questo testo, che, come detto, è anche il coronamento di altri suoi studi, tra cui ricordiamo non solo la sua tesi di dottorato, ma anche due recenti saggi (2018 e 2019): “Pater semper incertus”? Problemi di datazione e attribuzione nel Cantare di Giusto Paladino, «Critica del testo», XXI/I (1018), 161-201 e Memoria e scrittura in un inedito cantare del Quattrocento, in Memoria poetica: questioni filologiche e problemi di metodo, a cura di Giuseppe Alvino, Marco Berisso, Irene Falini, Genova GUP 2019, 105-119. Un percorso che invita il lettore che vuole approfondire a studiare l’opera e porsi delle domande non solo sull’autore del Cantare, ma anche sul paladino, Giusto o santo che fosse, o meno.

 

Salvo Micciché

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry