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La colpa innocente di esserci

 

Leggiamo con avvinto interesse una raccolta di poesie - Vagheggiando Itaca, (Thule, 2016) -, di Mariolina La Monica, destinata a restare per il godimento e l'orgoglio (non solo ″siculo″) dei posteri.

Una poesia che cresce sul proprio vortice di immagini e avvolge, seducendolo, il lettore, proprio come può accadere ascoltando una sinfonia di Ciaikovsky: ″abbraccio questa vita/senza presunta saggezza/senza dolo/ e Sento/mi innalzo alla bellezza/mentre Ciaikovsky illumina/e dalla volta m'empie la mia luna″ (Volo di luglio).

Un dialogo, ma anche un monologo che, tra cielo e terra, coglie l'impercettibile e lo restituisce al lettore come dramma. Potremmo fare un lungo indice di frequenza delle spie semantiche che conducono all'insondabile, come condizione terrena e destino dell'uomo: qui, però, mai disperata, ma piuttosto con parvenza di apertura e tensione all' ″Altro″. 

″Aria″, ″airone″, ″infinito″, ″luce″, ″volo″ lasciano trapelare, a dispetto del dubitativo ″forse″, ″la risonanza di un respiro di bene/[...]/quando invisibili vagoni passano dinanzi/e nuovi sibili si diramano nell'aria/cercando un lume che consoli/[...]″.

 

Già a partire dal titolo - assai accattivante -, Itaca ci appare subito come la metafora del ritorno e dell'approdo e cioè della quiete sperata dopo l'avventura nei meandri dell'illusione, che cela alla fine l'inganno dell'utopia esistenziale per disvelarsi come accettazione di una realtà che va affrontata nella sua dolente oggettività e mutata, perché si possa continuare a essere al di là di ogni sofferenza e del disincanto.

Ma Itaca, qui, non è soltanto richiamo, ma una spinta, un miraggio, un impulso alla fuga da se stessi; è, talora, l'inconscio desiderio di annullare se stessi nello stordimento del viaggio ovvero nell'avventura dell'incognito da cui sempre l'uomo è tentato sino al rifiuto di sé e al compromesso col fato. Quella fuga ulissea ricorda tanto il volo di Icaro, ma anche lo sfinimento di Sisifo e perfino l'azzardo di Prometeo che follemente (qui, disperatamente), vola a rubare il fuoco agli Dèi. Siamo alla filosofia del Mito come ultima spiaggia di speranza e di fede; e meglio: si potrebbe dire di una scontentezza di fondo, che spinge all'avventura del Mito per rimediare ai limiti che riducono e umiliano la nostra libertà di uomini che nella libertà credevano di trovare il germe della felicità. Illusione, follia!

Ebbene, trovo che questa poesia, particolarmente nei suoi momenti più alti e sublimi, viva di tutto questo, ne abbia la fatica e l'esaltazione; la rabbia e l'accanimento e l'innocenza della speranza.

Per tutto ciò, la ritengo una grande poesia, ma non perché, oggi, mancano in Italia i maestri della Poesia (ahimè, li abbiamo lasciati al Secondo Novecento, lasciando il Terzo Millennio a guardare!), ma perché questa poesia sa trarre forza e vita dal nucleo incandescente dell'esistenza: e non solo, la interroga, interrogando e interrogandosi; ma la sfida e l'ama, la respinge e ne è attratta. In tutto questo è la dialettica dolorosa dei versi di Mariolina La Monica, che si fanno pensiero e pensiero del mondo, a dispetto della mondità che ci affligge. Ma ci sarebbe ancora molto da dire su questa poesia, che resta a testimonianza della sua stessa grandezza! Grande almeno, quanto il dolore dell'uomo che vive nel risentimento e nella ricerca dell' ″Altro″ il proprio ″sé″ ferito dalla vita o il destino di una condizione umana nella quale si consuma il ″tradimento″ e il sacrificio della creatura umana, innocente ma già segnata, paradossalmente, dal privilegio e dal dono della vita, ma anche, appunto, dal declino che segna la ″diversità″ nello stato di sofferenza dove ″domandarsi se è dono o pena/forza o fragilità/quel ritrovarsi a vivere/tutte le vite e tutte le morti″ (Domandarsi).

Si potrebbe ricominciare a scrivere di questa poesia di La Monica, sono certo che si troverebbero nuove parole per definirne ancora la profondità e la forza espressiva del linguaggio, che nella sua incisività corteggia la solitudine per dare una grande lezione di vita alla moltitudine ovvero alla tirannia del mondo che ci lusinga per ingannarci nello scontro quotidiano col dolore, ereditato dall'uomo per la colpa innocente di esserci!

 

Giovanni Occhipinti

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry