La ragazza della “Sibbia” e il signor Turuzzu Malcasciato, ‘u gnuru. Una leggenda che ha dell’incredibile
di Gabriella Fortuna
La città di Siracusa, la polis per eccellenza, custodisce inestimabili antichi tesori dalle bellezze indiscusse, degne di ammirazione e di studio. Che poi non si riescono a valorizzarli, questa è un’altra storia.
Nella parte orientale della città, v’è un luogo fiabesco, un sito paradisiaco abitato da una arcadica vegetazione. Fanno da padroni alberi da alto fusto che svettano superbi verso il sole e chi ha la fortuna di visitare questo locus amoenus, pare proiettato in un giardino abitato da dei e ninfe. Farfalle variopinte svolazzano e uccellini dal piumaggio colorato si posano liberi sui fiori, alcuni dei quali di rara specie. Intorno un rumore silenzioso e tutto, al centro del contesto urbano. Un luogo sicuramente da rivalutare e renderlo fruibile nel circuito dei vacanzieri che a frotte si riversano nella città di Archimede.
Questo sito denominato Latomia dei Cappuccini presenta uno scenario da favola. Nel passato è stato un luogo di prigionia e anche una necropoli, per poi essere trasformato in orto dai frati cappuccini, il cui convento sovrasta il bucolico giardino. In questo scenario così pittoresco, si cela una leggenda che a solo raccontarla, la pelle tutta s’accapona.
È la leggenda della “sibbia”, probabilmente dal latino Silvae, così i siracusani più vetusti comunemente chiamano questo luogo. Protagonista un amore sfortunato, contrastato e con un bruttissimo tragico epilogo.
– «Tu, a chissu, a lassari, non è tipo per la nostra famigghia. Chissu travagghiu non ne mangia e rintra sta casa non entra. Ti farà passari i peni. Ti abbiamu cresciuta come na signorina per bene. Hai na cascia china di robba ricamata a Cantù e pi chiddu ca possedi, ti talìanu cu quattru occhi e ti meriti un possidenti, no un nullafacenti».
Melina però voleva un gran bene a Nicola. È vero, non lavorava, scola nun aveva mangiatu, ma erano tempi brutti per tutti. Nu travagghiu l’avrebbe trovato. E così sperava di trascorrere con lui la vecchiaia e con tanti picciriddi peri peri. Melina fantasticava su Nicola, u sentimentu è sentimentu e con quegli occhi, scuri e penetranti che si ritrovava Nicola, altro che farfalle nello stomaco!
Non faceva altro che pensare a lui e ogni scusa era buona per vederlo. Sperava che presto tardi i suoi genitori potessero ravvedersi e così poter mostrare loro che si sbagliavano, che Nicola, in fondo, era serio e nutriva sani principi. Ma questo non accadde mai. E comu fu e comu nun fu, successe che Melina un giorno si ritrovò con una creatura nel grembo. Felice, corse a cercare il suo Nicola per dargli la notizia, ma invano. Le dissero che era partito per fare fortuna e che in quella terra negra, sconsolata e amara, non avrebbe fatto più ritorno. Nicola se n’era andato e non le aveva detto niente. Non un saluto. Non un biglietto, niente. La disperazione la prese per la gola.
S’impadroní come un serpente rode e consuma piano piano la sua vittima. Intorno a lei l’abisso, lo sconforto, l’angoscia e quel senso di vuoto che non poteva e non sapeva come colmare. Non le restava altro una cosa sola. L’ultima. La più tragica ed estrema e andò a Sibbia. E qui scrisse il suo destino.
Di là si trovò a passare Turuzzu Malcasciato, un pio cristiano, ca pi tutta a vita u gnuri aveva fatto, e mai na parola di troppo aveva proferito. Ogni giorno, alle sette in punto, era solito fare la sua passeggiata proprio da quelle parti, quando fu attratto da un pianto, un lamento incessante, quereloso. Si guardò intorno e vide, quasi nascosta, quella ragazza dal volto cereo che gli diceva di andare al civico 35 di via Rosselli e avvertire i suoi genitori che si trovava lì, che aspettava che qualcuno prendesse il suo corpo per una degna sepoltura.
Turuzzu, che era sicuramente un don Abbondio, scappò via a gambe levate, impaurito. Ma quelle parole gli risuonavano in testa, gli martellavano incessantemente le tempie. Al pensiero un sudore freddo gli scendeva copioso. Aveva sognato?
Chi era quella giovane carusedda piangente e spettrale! Raccolse il suo coraggio, se mai l’avesse avuto, e andò all’indirizzo che aveva indicato la ragazza, solo solo per dare risposta alla sua curiosità. Qui trovò una scena straziante. Un padre e una madre che piangevano la scomparsa della loro figlia. Non trovò il coraggio di dire cosa gli era successo. Troppo grande era il dolore che pativano quei mischineddi, ma lasciò loro un biglietto dove c’era scritto cosa aveva visto. Lo posò là, in bella mostra per essere letto e andò via di corsa, lontano da quel patimento, più in fretta possibile. Accussì si cunta.
Una storia vera, inventata? Chi potrà dirlo. Sicuramente una storia che deve entrare nella memoria dei giovani, perché possano tramandarla a loro volta e perché queste leggende autoctone fanno parte anche della nostra reminiscenza storica.
Gabriella Fortuna