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  • Rubrica: Spigolando

Ragusa, 11 febbraio 2020 — Ricordo perfettamente, come fosse ieri, le mie due nonne. Giorgia, minore d’età e con la quale convivevo, e Giuseppina, molto più grande e che morì molto vecchia, quaranta anni fa.

Tra le tante cose che le dividevano (l’una ragusanissima col suo Occhipinti Pitreɖɖa in Distefano Minusa, l’altra modicana, anzi çiumarara col suo Calabrese in Tirella) avevano in comune alcune cose (oltre, ovviamente, ai nipoti figli del figlio della prima e della figlia della seconda). Tra queste, il rispetto sacro per la parsimonia (non l’avarizia, si badi!), e la lotta senza quartiere e senza sosta alla ingordigia e agli sprechi (alimentari su tutti, ama anche energetici, perfino linguistici).

Altre, tipiche dell’epoca e delle coordinate geografiche nelle quali erano nate e cresciute, e poi una serie di modi di dire; una serie lunghissima. Io però, microdotato di neuroni, ne ricordo pochissimi (anche perché nella adolescenza ritenevo fosse fastidioso stare ad ascoltare una nonna che ti raccomanda mille volte di non prendere freddo e ti racconta mille volte di quando suo marito uccise non sappiamo quante decine e decine di austriaci).

Ma una cosa ho fissato, e la ricordo ancora dopo mezzo secolo. Entrambe, Giorgia e Giuseppina (appellate Gina e Pippina), erano prontissime a giustificare un malessere, qualunque fosse, uno stato non ottimale, un problema anche minimo, con la frase «chissa eni a dibulizza».

Tutto: hai freddo? «chissa eni a dibulizza», zoppichi? «chissa eni a dibulizza», hai mal di testa/di denti/di orecchie? «chissa eni a dibulizza» … Financo il mal di stomaco, che di norma è causato da cibo avariato o troppo abbondante, era spiegato con «chissa eni a dibulizza».

Non solo; succedeva addirittura che la frase «chissa eni a dibulizza» fosse utilizzata a mo’ di minaccia, in questo caso ovviamente con riferimento alle bizze e ai capricci dei bambini: «mangia pirchì ti veni a dibulizza», «statti quetu pirchì ti veni a dibulizza», «ascuta a tô pa’, pirchì masinnò ti veni a dibulizza».

Non si usa, non si usa più; o forse – ma quanto segue è chiarissima forzatura – si usa in un preciso settore e in un preciso momento: quando il medico, davanti ad un malessere non grave (almeno al momento in cui il paziente lo rappresenta), taglia corto con: «chissu è... u stress».

 

Saro Distefano

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry