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  • Argomento: Letteratura

Un ritratto della poetessa Mariannina Coffa, nata a Noto, vissuta a Ragusa. La capinera malmaritata...

di Federico Guastella

 

In occasione della cerimonia rievocativa ad un mese dalla morte di Mariannina Coffa, i ragusani Filippo Pennavaria, Paolo La Rocca Impellizzeri, Raffaele Solarino ed altri, a testimonianza del sodalizio culturale e amicale che avevano stretto attorno a lei, nel Teatro Concordia la ricordavano, mettendo a nudo le sofferenze della poetessa, il disagio psicologico, nonché la misura delle sue capacità intellettuali[1].

 

L’avvocato Filippo Garofalo così la presentava: «E piccolo corpo avea la Coffa: crine castagno e folto; occhio risplendente con vivido sguardo; labbra porporine atteggiate al sorriso che, nello insieme, la rendevano di molte grazie adorne e bella».

I dati biografici sono scarni, ma densi di eventi cruciali. Tentiamone appena una sintesi. Nasce a Noto il 30 settembre 1841 da Celestina Caruso Olivo e da Salvatore Coffa Ferla, avvocato, massone e patriota liberale benché dal temperamento arretrato e conservatore. La chiamavano Nina in casa e fin da ragazza mostra inclinazione alla poesia e alla musica; guidata dal sacerdote poligrafo Corrado Sbano studia il latino e il francese. Per lo più da privatista, acquisisce, dopo la frequenza del collegio “Peratoner” di Siracusa, conoscenze di letteratura italiana, di storia e filosofia. Legge Dante, Manzoni, Leopardi, Gaspara Stampa, l’Aleardi.

Nel 1855, appena quattordicenne, a Siracusa presso la tipografia Puleio dà alle stampe le “Poesie in differenti metri”. Quasi diciassettenne scrive due opere rimaste incompiute: la tragedia “Torquato Tasso”; in ottave “Il Vespro siciliano”, dove si trovano argomenti modulati su toni intimistici e risorgimentali da cui emerge il valore civile della poesia in una realtà onirica, quasi platonizzante. Sono versi che sembrano la premonizione delle traversie cui andrà incontro nel difficile e breve cammino della vita. Nel 1859 pubblica i Nuovi Canti di M. Coffa Caruso da Noto (Tip. Ed. Spagnoli, Noto). Poi “Ultimi versi” (Tip. Virzì, Palermo 1878): opera che le valse il titolo di membro dell’ “Accademie de Sciences et Arts” di Parigi e l’ammissione in Arcadia. Il volume “Poesie scelte” - edizione postuma del 1882 a cura del Municipio di Noto - reca una breve prefazione di De Sanctis: «L’autrice di questi versi non osò esser donna, e cullò tutta la vita ne’ sogni e ne’ desii vaghi indefiniti della prima età (…). Martire della sua anima rimasta vergine e quasi infantile, passò sulla terra, guardando al cielo, dove cercava la patria sua, e dove sperava quiete».

Apprezzata dal Tommaseo e dall’Imbriani, dei suoi componimenti si occuparono diverse riviste dell’Isola. E, al di là dell’apprezzamento stilistico, ci sarebbe da leggerli seguendo tre percorsi: il forte sentimento di italianità, l’intreccio dell’autobiografia con la poesia, le presenze di simbologia massonica, essendosi alimentata di valori ad essa pertinenti. Nell’insieme poesia visionaria la sua coi motivi della letteratura del tempo: le percezioni del paesaggio netino e ragusano attraversate dal contrasto tra la bellezza della natura e la pena del vivere, mentre l’idea fissa della morte rimanda a una realtà luminosa-sovrasensibile (“il gran concetto”), animata dall’occulto fuoco giammai manifestato.

Lei forse si mostrava così: «spigolosa e rigida nei rapporti interpersonali con i parenti ignoranti e meschini nell’ambiente familiare soffocante, ma candida e dal colore di cielo nell’anima ove coltivava le dolci sequenze dei sogni letterari»[2].

Per Ascenso Mauceri (Ascenzio egli si firmava e Ascenso quasi sempre lei preferiva nominarlo), musicista e drammaturgo di Noto (biondo, alto e di piacente aspetto), da cui ragazzina quattordicenne prende lezioni di pianoforte, prova sentimenti sbocciati all’età di diciotto anni. Il loro fidanzamento, durato due anni, non si concretizza con il matrimonio per l’avversione dei genitori di lei (il giovane, che non disponeva di beni materiali, apparteneva ad una classe sociale inferiore). Per convenienza le viene imposto un marito benestante e per non dare un dispiacere alla madre la poetessa respinge la “fuitina” (fuga d’uso abbastanza frequente in Sicilia), propostale dal fidanzato. L’8 aprile 1860, il giorno di Pasqua, diviene sposa del ragusano Giorgio Morana, proprietario terriero e illetterato (per poco tempo sindaco della città). Da un lato il mancato matrimonio con l’amato, dall’altro il trasferimento a Ragusa la gettano in una profonda crisi. Non dimenticherà mai Ascenso. A lui, dal 1869 al 13 maggio 1872, invierà lettere appassionate mediante un comune amico: Giambattista Lupis. In realtà la corrispondenza era già iniziata nel luglio 1854 quando lei aveva quattordici anni (il carteggio, rispetto alle 39 lettere raccolte da Gino Raya[3], può essere più compiutamente letto in appendice allo studio accuratamente sistematico di Marinella Fiume[4]).

Ci si trova dinanzi a un modo di comunicare tipico del realismo sia romantico che preverista; modernamente fa leva sul disincanto. Nonostante i cedimenti alle prevaricazioni, dicendosi fedele al sentimento d’amore (“Dopo i pianti, le minacce e le preghiere mi si strappò un consenso al matrimonio. Non fui debole Ascenso, non fui vile, non vi obliai un solo istante, non ebbi lusinghe… non sapevo più se ero viva mi lasciai condurre, o meglio portare o trascinare”), nella lettera datata 9 marzo 1870 offre una testimonianza sugli stati d’animo vissuti nel giorno del matrimonio, celebrato nel Duomo di Siracusa il giorno di Pasqua del 1860. A partire dal motivo del sogno infranto, ricorrente elegia nel suo animo travagliato, trova sviluppo una storia di incomprensioni, di ostilità, di lacerazioni fondate sull’esclusione. Degna di nota l’amicizia con il medico Giuseppe Migneco, omeopata e magnetista nativo di Augusta e residente a Catania[5], la cui influenza la indusse a curare i disagi con le pratiche magnetiche da quando il 4 settembre 1864 aveva perduto la sua bambina di dieci mesi.

Nel 1869 Ascenso viene a Ragusa come ispettore scolastico e lei, nascosta dietro le persiane, spera di poterlo vedere, essendo il monastero della Badia, che accoglieva il collegio, dirimpetto al palazzo dove lei abitava (lettera datata Ragusa, 1° febbraio 1869). Nella tenera confessione, ancorché traversata dalle tonalità del melodramma, il desiderio, sciogliendosi nella delusione, si muta in fuga dal proprio ‘io’ e chiama in causa la morte che assume il senso della liberazione dalle gravezze della vita. In sostanza, le lettere formano un vero e proprio racconto autobiografico nel quale si scorge l’assillo di chi si sente perseguitato e insieme la fragilità di chi non sa trovare giustificazioni né di sé né del mondo. I nodi intricati della sua condizione quali la lontananza da Noto e l’imposizione del marito, l’insistente ricordo del passato, il trovarsi in un ambiente diverso dal proprio e in una casa che le dà continue umiliazioni, il dolore per la perdita prematura di due figlie (su quattro), nonché il vagheggiamento ossessivo di un amore incompiuto, sono abbastanza evidenti. È la figura di Ascenso il motivo dominante. Vi si situano sensi di colpa e rimozioni, autocommiserazione e quotidiane ossessioni, sfoghi improvvisi, rinunce e desideri nascosti. Non a caso Gino Raya ha accostato Mariannina alla capinera verghiana. Del resto, il romanzo “Storia di una capinera” era stato scritto nel 1869 e pubblicato nel 1871: se Verga rappresenta usi di cui vittime sono le donne per la confisca della libertà di realizzarsi, le lettere ad Ascenso non solamente ne confermano la realtà, ma coinvolgono in una storia d’amore inconclusa, in una vita di donna sacrificata a valori imposti.

Dell’eringio ha parlato Teresa Carpinteri nel suo omonimo romanzo: la metafora espressa dal titolo allude al modo di sentire di un’anima recante gravosi fardelli e aneliti che pure servono ad alleviarli[6]. L’eringio, si sa, è diffuso nelle dune sabbiose dei paesi mediterranei ed è una pianta con foglie fortemente incurvate, rigide e coriacee dai margini spinosi e con fiori piccoli disposti in capolini. Nell’incipit della singolare “biografia psicologica”, la studiosa parla di questo fiore, caro agli artisti, che assicura amore e fedeltà al fortunato suo possessore: simbolo di bellezza della poesia che suscita catarsi e purificazione. Del vissuto angoscioso di Mariannina, esploso in occasione della morte di una sua figlia, si era occupato il medico-poeta Filippo Pennavaria. Avendola presa in cura, tentò di darne una spiegazione esposta nell’opuscolo di ventotto pagine “Sopra un caso d’isterismo acuto con estasi e sognazione spontanea in persona della insigne poetessa M. C. C. in Morana, Considerazioni medico-filosofiche (Ragusa, Piccitto&Antoci 1878).

Veniva così alla luce un contributo sulla ricerca delle psicopatie . Annotando i momenti di estasi della poetessa (la luce, l’angelo, il sole, le stelle, il firmamento), riconduceva le visioni all’esuberanza della sua immaginazione, tale da provocare “un dissesto misterioso che invadeva l’organismo in tutte le sue potenze”. Di certo un passo avanti sull’indagine psichiatrica rispetto ai diffusi esorcismi o magherie. E comunque non erano maturi i tempi per una lettura sociologica dei fenomeni psichici da ricondurre anche alle repressioni familistiche: «Io sono sposa e madre: ho perduto il diritto di lamentarmi», scriveva ad Ascenso Mariannina, intanto che con rassegnazione si era imposta il rigoroso rispetto dei doveri coniugali e familiari. Pur avvertendo l’ostilità dell’ambiente, sentiva per fortuna la scrittura come il soddisfacimento di un bisogno vitale e con determinazione adottava ogni possibile cautela per sfuggire ad ogni sorta di controllo: cercava e trovava parole nel silenzio della notte e con la complice luce d’una candela in un angolo magico tutto per sé (di una stanza esclusivamente femminile parlerà nel 1929 Virginia Woolf).

Lo scrivere affermava il suocero rozzo, maldicente e così despota da sorvegliarle la corrispondenza, rende le donne disoneste e si vantava di non aver fatto studiare le figlie, perché nessuno potesse dire che non fossero oneste e buone “donne di casa”.

Infine, la rivolta decisiva, conclusasi con la fuga dal tetto coniugale, dopo 16 anni di matrimonio (dal 1860 al 1876), e il ritorno definitivo a Noto. Respinta per la vergogna dai familiari, venne ospitata da un anziano comune amico, il massone dott. Lucio Bonfanti, e visse la sua disperazione invocando vendetta contro i persecutori e manifestando la volontà dell’allora inesistente divorzio. Soggetta a frequenti emorragie, probabilmente causate da un cancro all’utero (forse un intervento avrebbe potuto salvarla, ma non poté essere operata per l’indisponibilità della somma occorrente), muore il 6 gennaio 1878.

Il Comune sostenne le spese dei funerali cui partecipò, tranne i familiari, tutta la comunità malgrado fosse stata ritenuta pazza e dedita a pratiche spiritiche. Anche i labari della Loggia massonica Elorina seguirono il feretro.

 

Federico Guastella

 

[1] In memoria della poetessa Mariannina Coffa-Caruso in Morana – Prose e Poesie, stampato nel 1878, a cura del Municipio di Ragusa coi caratteri della tipografia Piccitto&Antoci.

[2] D. Barone, Mariannina la capinera, in quotidiano di Catania “La Sicilia”, 29 marzo 1994.

[3] G. Raya (a cura di), Lettere ad Ascenso, Siracusa-Roma-Milano, Ciranna, 1957 (Ne aveva dato anticipazioni su con gli scritti: “L’occulto fuoco di M. Coffa. Un epistolario inedito”, “La Nuova Antologia”, Roma agosto 1955; “Le caste e appassionate lettere d’una poetessa siciliana” su “La Sicilia” dello stesso anno.

[4] M. Fiume, L’epistolario amoroso Coffa Mauceri, in Sibilla arcana. Mariannina Coffa (1841-1878), Caltanissetta, Edizioni Lussografica, 2000. Autrice, peraltro, del racconto “Notte chiara” in www.letteraturaalfemminile.it e riportato da Concetto La Terra in “La capinera che non sorrise”, a cura di B. Iacono, Sicula editrice – Netum, Noto, 2003.

[5] Il profilo biografico è stato tracciato da Marinella Fiume nell’opera “Sicilia esoterica”, Newton Compton editori, Roma, 2013.

[6] T. Carpinteri, L’eringio, Flaccovio, Palermo, 1978.

 

Nella gallery le foto di Mariannina Coffa, il monumento a lei dedicato e la casa in cui visse, al centro di Ragusa (ph. salvomic, salvo micciché, Biancavela Press)

 

 

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