- Argomento: Storia
Nel Seicento la Contea di Modica è governata dagli Enriquez-Cabrera. In conseguenza dello sviluppo agricolo-commerciale, il secolo XVII, in linea di continuità col precedente, fu caratterizzato da una discreta attività edilizia ecclesiastica e civile. Nel quartiere degli Archi, a Ragusa, venne realizzato lo splendido ingrandimento della piccola chiesa di San Giovanni, voluto per l’ambiziosa volontà di competere coi sangiorgiari
Meritevole di un accenno la presenza francescana che testimonia una consistente crescita culturale e filantropica[1].
Il riferimento va all’arrivo dei Cappuccini, il cui convento dapprima sorgeva nella Cava San Leonardo dinanzi alla chiesetta di Sant’Antonio Abate, presso la fontana Propenso. Per motivi malarici dovuti all’eccessiva vicinanza del fiume Irminio, nel 1610 si trasferirono in un sito più conveniente: nel convento attiguo alla chiesa di S. Agata che ora si trova all’interno del Giardino Ibleo. Rilevante la presenza delle Benedettine di San Giuseppe, risalente al secolo XI: nel 1590 troveranno sistemazione a fianco del palazzo del l’Amministrazione civica; nel 1611, sorgerà grazie a lasciti e donazioni il monastero governato dalle prime tre monache di clausura. Nel 1620 viene portata a termine la costruzione dell’Orfanotrofio femminile presso la chiesa di Santa Maria delle Grazie (poi di Santa Teresa).
Dal manoscritto anonimo sulla Ragusa del Seicento, pubblicato da Francesco Garofalo (1980), oltre a leggersi che Ragusa aveva acquistato le sembianze di un pesce tra le acque, si osserva lo schizzo in cui sono segnati i punti di riferimento che vanno dalla testa alla coda[2]. Nel “Discorso III” della sua opera Storia di Ragusa antica e moderna (1856), Filippo Garofalo così precisava la “forma piscis in acqua”: «I nostri maggiori descrivevano l’antica Ragusa come un pesce fra le acque dolci: e vedevano la testa al Corso, il dorso nel Castello e le ali ai due lati sporgenti: la coda agli archi coi quartieri di s. Rocco, s. Maria e s. Paolo: circuito era così dalle acque dell’Erminio, del Fiumicello e di S. Leonardo».
Modesta la popolazione, impoveritasi anche a seguito delle devastanti epidemie, ricordate dal Garofalo: «Molte altre ragguardevoli famiglie come quelle di Aristia, Iurato, Sammito, Campulo, Settimo eransi estinte per deficienza di prole maschile, per emigrazione in altri comuni e per altri motivi, ma estinsero molte chiare stirpi e moltissime anche plebee la peste del 1576 e 1577e del 1625 e 1626». Benché afflitta da pesanti calamità (per esempio: l’invasione periodica di cavallette e la carestia di frumento e d’orzo del 1677 che fece esplodere consistenti disordini finiti nel sangue), la Ragusa del Seicento non fece venire meno il senso della competizione e dell’affermazione. Ricco, malgrado le tristi condizioni di vita, il territorio di beni stabili e mobili come risulta dai Riveli del 1607 resi noti da G. Raniolo nella sua opera[3].
Numerose le confraternite e gli enti assistenziali, ed erano le famiglie più agiate a versare sussidi e rendite vitalizie per il sostentamento dei poveri. Decine di chiese si aggiunsero all’eredità medioevale per effetto della Controriforma, tanti i palazzi che sorgevano sulla strada maestra e sulle vanelle e già erano presenti alcuni contrasti fra Sangiorgiari e Sangiovannari per il diritto di matricità, pur trattandosi in effetti solo di conflitti fra ceti: da un lato i nobili della città murata; dall’altro i cosiddetti massari impegnati nella gestione delle terre con l’attività legata al commercio dei grani. Lo studio del prof. Giuseppe Barone, intitolato La città dei devoti. Per una storia civile e religiosa di Ragusa (1607 - 1744) (cfr. www.duomosangiorgio.it), fa chiarezza sullo stato dell’agricoltura iblea non ancora pienamente sviluppata: «L’enfiteusi non aveva ancora abbracciato l’intero altopiano e grandi estensioni di terra restavano incolte e “cespugliose”, così come modesta risulta la consistenza delle greggi ovine e del bestiame ovino. Se si fa eccezione dei vigneti nelle zone periurbane e delle piante tessili (lino, canapa) nelle poche aree irrigue, mancano ancora gli alberi e i terreni appaiono nudi: la colonizzazione agricola era appena agli esordi e bisognerà attendere l’Ottocento per vedere verdeggiare carrubeti ed oliveti».
Erano dunque le oligarchie familiari ad esercitare il potere politico e ad esprimere colti personaggi quali giuristi e pubblici ufficiali con cariche importanti a Napoli e a Palermo.
Un accenno merita l’apporto dato dalla famiglia di Giacomo La Restia, padre, il cui palazzo con giardino sorgeva a pochi passi dalla Chiesa di S. Giovanni. Di origini catalane, la famiglia venne in Sicilia nel XV secolo e certamente fu uno dei più nobili casati di Ragusa, dove poté accumulare ricchezze ed onorificenze a partire dal 1550. Il figlio Paolo, marchese potentissimo, esercitò ininterrottamente la carica di governatore e Capitano d’armi della Contea per trentatré anni (probabilmente dal 1600 al 1631)[4].
Non si può non ricordare il figlio Giulio, barone di san Filippo maritali nomine, avendo sposato Donna Giovanna Margherita Iurato baronessa di san Filippo da cui ebbe la figlia Maria, maritatasi nel 1610 con Vincenzo Paternò Castello barone di Biscari, il quale per donazione fattagli dal padre aveva ricevuto il feudo nel 1609. Donna volitiva Maria La Restia, decisa a difendere la successione feudale per via femminile a favore dell’unica superstite di famiglia: la figlia Mariula, sposa all’età di undici anni dello zio Agatino Paternò Castello (a seguito delle nozze con la nipote, il 4 giugno 1624 assunse la baronia per diritto maritale e il 21 giugno 1623, con privilegio di Filippo IV, re di Spagna, ricevette il titolo di Principe di Biscari). Isabella, sorella di Maria, andò sposa a Ferdinando Tomasi dal cui matrimonio nacquero i gemelli Carlo Luca e Giulio Vincenzo. Entrambi alla morte del padre (1615) e della madre (1634), si trasferirono a Licata per poi fondare, nell’ambito della colonizzazione del latifondo, Palma il 25 aprile del1637.
Alla cerimonia partecipò un nutrito gruppo di ragusani, tra cui l’astronomo ragusano Gian Battista Hodierna (Ragusa 1597 – Palma di Montechiaro 1660): da abate diventerà arciprete della chiesa madre del nuovo insediamento. È del compianto prof. Mario Pavone il merito d’una ricca e documentata esposizione biografica, utilizzando le opere originali, le fonti più autorevoli e i commentatori competenti.
Hodierna è una delle figure più rappresentative dell’epoca galileiana: ebbe conoscenza delle opere di Secondo Lancellotti, di Giusto Lipsio e di altri insigni uomini di scienza. Da ricordare Il Nunzio del secolo cristallino, opera rimasta inedita e composta dal 26 luglio al 5 agosto del 1628: «un vero e proprio documento programmatico – ha scritto Pavone – che offre la chiave di lettura dell’esperienza scientifica di Hodierna, ma altresì degli aspetti significativi dell’epoca in cui egli visse».
Il momento più straordinario, il più importante, è il passaggio dalle vecchie alle nuove età: per modo che Hodierna poteva parlare di “trasmutazione”, di “metamorfosi” e vivere gli entusiasmi di un’epoca coi suoi “belgici strumenti”: il telescopio e il microscopio, amplificatori della potenza visiva e speculativa, avendo consentito al mondo di divenire diafano e conoscibile in contrapposizione all’opacità e inconoscibilità del passato. Nel clima della rivoluzione scientifica per Hodierna, infatti, la conoscenza è valutazione critica e razionale dei dati raccolti a partire dalla formulazione di ipotesi per giungere alla scoperta delle cause dei fenomeni esaminati in modo che tutto venga “verificato o ponderato”.
Nel contesto della nascita in Sicilia di nuove città, il Garofalo cita la fondazione di Vittoria, avvenuta ancor prima di Palma nel 1612 sotto Alfonso Henriquez: «e Ragusa davale parte del territorio vicino Camerina, parte di abitanti e del litorale sia a Dirillo ed ultimamente lo scalo di Scoglitti, e fra breve così prosperò la nuova città, pel commercio, per l’industria, che si pose nel rango delle primarie del regno». Avvenimento, meritevole di essere ricordato, la visita del grande almirante Giovanni Enriquez de Caprera, viceré di Sicilia nel 1640. Filippo Garofalo ha scritto che egli “nello andare a Palermo in Messina passò dalla contea e con nobilissima corte e col segretario Francesco Boglie o Bolle fu qui in Ragusa accolto con sontuose feste date dalla nobiltà ragusana, che molte erano allora le nobili famiglie qui dimoranti”.
Il manoscritto anonimo indica la data del 1643, accennando ad un ampio spazio “a mo’ di teatro”, utilizzato «per rassegne, corse di quintane, giostre e gioco del toro, come accadde alla venuta del nostro Grande Almirante». Per la buona accoglienza – ci informa altresì Garofalo - «il viceré concesse a Ragusa il titolo di città, due contestabili ed al capitano ed ai giurati diede un banditore con clava d’argento e due mazzieri». In quanto agli anni della rivolta antispagnola e antinobiliare del 1677-1678, la documentazione di Giuseppe Barone ha i toni d’una suggestiva narrazione, il cui centro è dato da un quantitativo di orzo e frumento da inviare a Siracusa a favore del contingente spagnolo:
Per i nobili produttori di cereali si trattava di un affare assai lucroso grazie al prezzo elevato corrisposto dalla Regia Corte, ma di una pessima misura per i ceti popolari già vittime della carestia e taglieggiati dal fisco (…). Quando perciò i giurati di Ragusa Francesco Giampiccolo barone di Cammarana, Bernardo Castellett barone di Cameni, Vincenzo Arezzi barone di Calamezzana e Giacomo De Stefano barone di Cutalia, tutti di stretta osservanza «sangiorgiara», impartirono le disposizioni per far partire alla volta di Siracusa i carichi di grano e di orzo, i popolani del quartiere degli Archi cercarono di impedire con ogni mezzo l’uscita delle vettovaglie dalla città, accusando i nobili di arricchirsi alle spalle dei poveri per lasciarli morire di fame (...)
Vincenzo Consolo, che alla rinascita del Val di Noto dedicò l’attenzione di scrittore nell’opera Di qua dal faro[5], con rapide pennellate a fosche tinte così ha descritto l’atmosfera surreale degli attimi che si vissero sulla costa jonica della Sicilia, tra Pachino e Peloro: «Un cielo livido, piane colli monti privi d’ombre, sfumature, d’una insopportabile evidenza; un tempo immobile, sospeso; e un silenzio attonito, rotto da ulular di cani, strider d’uccelli, nitrire di cavalli: un mondo che sembra attendere da un momento all’altro la sua fine; l’uomo, di consegnarsi ineluttabilmente all’ultima certezza. Il cui panico Michelangelo ha rappresentato nel “Giudizio” (in basso, sul lato dei dannati, un occhio reso cieco da una mano, l’altro, sbarrato, con dentro lo sgomento)».
Federico Guastella
::
[1] L. Barone, Presenza francescana a Ragusa, Tip. Leggio e Diquattro, Ragusa, 1983.
[2] Nel 1857 il sacerdote Giuseppe Vitale in un suo schizzo ridisegna la forma piscis, inserendovi come punti di riferimento 43 chiese e alcuni edifici pubblici.
[3] G. Raniolo, I Riveli del 1607 a Ragusa. Parte prima, Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa, 2003.
[4] Notizie dettagliate sono offerte dal prof. Giuseppe Barone che in un post ha scritto: «nasce nel 1548, percorre il cursus honorum di giurato, castellano e capitano giustiziere della città, acquisendo il titolo di barone nel 1591 sui feudi di Piombo e Boncampello. Nel 1600 compra “a corpo” la possessione dell’Anguilla e nel 1606 rileva dai Cannizzo la vasta proprietà di Canicarao su cui ottiene nel 1627 il titolo di marchese. Il matrimonio con una nobildonna Isabella Sedegno gli permette l’inserimento nell’oligarchia siculo-catalana (…). Nel 1601 diventa Governatore della Contea di Modica, carica che - caso unico - manterrà per un trentennio, surclassando genovesi, spagnoli, milanesi e fiorentini in grado di detenere per tutto il Cinquecento il monopolio delle cariche pubbliche. Nel 1605-07 è tra i protagonisti della fondazione di Vittoria (i riferimenti d’obbligo vanno agli studi di Giuseppe Raniolo e Paolo Monello), dopo aver affittato il feudo del Dirillo per l’enorme cifra di 1850 onze pur di strapparlo alla concorrenza dei chiaramontani Ventura: forse avrebbe voluto ottenere a suo esclusivo vantaggio la “licentia populandi” concessa poi agli Enriquez Cabrera? Nel “rivelo” del 1607 dichiara insieme al fratello Giulio un patrimonio di beni mobili ed immobili di 25 000 onze: sono ormai i più ricchi della città, gli Arezzo, i Castellett e i La Rocca li seguono a molta distanza. Per dare la caccia a ladri e briganti di passo sarà nominato per alcuni anni dai viceré Capitano di Armi e Guerra di Sicilia. Con i conti di Modica, Grandi di Spagna, Paolo tratta da pari a pari: nel 1624 viene riconfermato alla guida dell’Amministrazione comitale grazie all’anticipazione di 40000 onze sui futuri introiti. Decisamente un passo più lungo della sua gamba: la peste del 1625-26 e la conseguente crisi economica ne faranno un debitore degli Enriquez Cabrera per oltre 10000 onze e provocheranno (dopo la sua morte nel 1631) un contenzioso giudiziario concluso nel 1635 con il sequestro di una parte dei suoi beni che passeranno nelle mani dei Di Stefano, famiglia doviziosa di Chiaramonte trasferitasi presto a Ragusa».
[5] V. Consolo, Di qua dal Faro, Mondadori, Milano, 1999.