Cultura
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  • Argomento: Storia

Motivi di salute impediscono a Leonardo Sciascia di portare avanti un lavoro sulla vita di Telesio Interlandi, di cui aveva raccolto una copiosa documentazione, attinta in particolare dal figlio Cesare.

Nella lettera del 15 gennaio 1989 a questi Sciascia scriveva: «La ringrazio di tutte le notizie che mi dà, e che mi saranno utili, anche se meno – nel taglio che intendo dare al racconto – meno mi interessano i rapporti di suo padre col fascismo, il suo fascismo, e più il dramma del ‘45. Le due vite, mi interessano, e quel tragico momento: di suo padre, dell’avvocato Paroli».

Ecco un cenno dell’uomo più famoso del regime fascista. Telesio Interlandi (Chiaramonte Gulfi 1894 - Roma 1965): del padre Vanni (Giovanni), maestro elementare, rimangono alcuni scritti pedagogici ed un breve saggio su Serafino Amabile Guastella, mentre di lui è noto l’inserimento nell’apparato dello Stato fascista che gli consentì di essere una delle espressioni più autorevoli attraverso la direzione del giornale “Il Tevere” (1924), ottenuta dopo il delitto Matteotti e successivamente a diverse esperienze giornalistiche a Roma e a Firenze.

Vi scrissero famosi scrittori. Per citarne alcuni: Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati, Elio Vittoriani, Corrado Alvaro, Ardengo Soffici, Alberto Moravia. Dell’Interlandi ricordiamo: il settimanale “Quadrivio” (1933); "Pane bigio" sottotitolato ‘Scritti politici’, edito a Bologna nel 1927 con la prefazione del poeta Vincenzo Cardarelli; nel 1938 diresse il quindicinale “In difesa della razza”; il primo numero apparve il 5 agosto del 1938 recante in copertina due versi di Dante tratti dalla terza cantica della Commedia (Il “Corriere della sera” dell’11 novembre del 1938 – edizione del pomeriggio – informava, in prima pagina, che il Consiglio dei Ministri aveva approvato le leggi per la difesa della razza), e nel medesimo anno pubblicò un insieme di scritti nel libro Contra Judeos che, per Guido Piovene, ebbe la virtù principale “di aver ridotta all’osso la questione ebraica” (“Il Corriere della sera”, 15 dicembre 1938). Egli appare come l’intellettuale smaliziato che, distaccandosi dal suo microcosmo per avventure più gratificanti e cedendo alle lusinghe del potere, si distinse per aver sostenuto le tesi antisemitiche dell’epoca, nonché le leggi razziali (1938), il cui spaventoso esito si ebbe poi ad Auschwitz, a Dachau e in altri numerosi lager nazisti.

Catturato dopo il 25 aprile e destinato al carcere di Canton Mombello a Brescia per essere destinato quasi sicuramente alla fucilazione, fu fatto evadere dall’avvocato bresciano, socialista militante e antifascista, Enzo Paroli. Insieme alla famiglia (la moglie e il figlio), lo nascose a casa sua, quasi di fronte al carcere, dal 17 novembre 1945 al luglio 1946, mettendo a rischio la propria vita. Il ‘maledetto’ Interlandi veniva infine assolto grazie alla difesa del suo avversario politico. Prima che morisse, Sciascia diede le carte e gli appunti al giudice catanese Vincenzo Vitale che ne fece il racconto In questa notte del tempo (Sellerio, Palermo, 1999). Anche Giampiero Mughini sul personaggio aveva già scritto A via della Mercede c’era un razzista (Rizzoli, Milano, 1991). L’anno successivo il giornalista bresciano Tonino Zana, rovesciando il titolo del romanzo di Stendhal Il rosso e il nero, pubblica il saggio monografico Il nero e il rosso – Il romanzo bresciano che Sciascia non scrisse (Gussago – Editrice Ermione, 1992). E Leonardo Sciascia porta con sé una specifica sensibilità ricognitiva: «La profezia della vicenda stava forse nell’avere il coraggio di ridefinire l’antica scala dei valori ponendo in cima, l’uomo, nudo, intorno al quale, a lenti cerchi concentrici, mobilitare il circolo delle piccole bontà quotidiane, piano, piano, lentamente, giù giù fino al cerchio finale dell’orizzonte dove sarebbe potuto apparire lo Stato».

Nel libro si cita la lettera, datata 12 novembre 1988, che Sciascia aveva scritto all’avv. Stefano, figlio del penalista Paroli: «Credo che in questo nostro mondo di violenza e di fanatismo, quel che in anni lontani e meno violenti Suo padre ha avuto la forza di fare, noi abbiamo il dovere di non dimenticarlo e di indicarlo come esemplare”. In definitiva, il “nero” e il “rosso”» si alleano proprio per sfuggire con la forza della pietas alla logica della spietata vendetta di cui è vittima l’umano dell’uomo.

 

Federico Guastella

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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