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Cultura
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  • Argomento: Letteratura

Che la fotografia, a differenza del cinema, esprima l’irriproducibilità del tempo, e quindi l’assenza di uomini e cose, ce ne rendiamo conto, leggendo il brano di “Dicerie dell’untore” in cui Marta, deturpata dalla malattia (“un simulacro di donna”), nel corso della loro fuga per le vie della città dal sanatorio, parla al narrante del suo sorriso d’una volta, registrato in una foto: «Non sono io, diciamo che è la mia sorella cattiva» si scusò, guardandomi di sott’insù, e subito volgendo lo sguardo altrove, come quella sera nel camerino, dopo lo spettacolo. Poi fece:
«Conversando con me, quella faccia non servirtene. Sèrviti di quest’altra». E trasse dalla borsetta, e mi tese, una foto dove lieta, seminuda, con una coscia sporca di sabbia, sorrideva a nessuno, davanti a sé. «Così ero  – aggiunse –. Così bella. Col mio sorriso del ‘42. La mia annata migliore».

Un sorriso il suo della giovinezza: cioè, l’ombra del passato che appare nella fotografia, una perdita evocata dalla nostalgia e provocata dalla fragilità della vita. E più crudamente il pensiero di Bufalino va ad un’arte fotografica che nella vita attesta la morte.

Si giunge da qui a Museo d’ombre (1986): in sintesi, l’opera di mestieri scomparsi e di facce lontane, dove lo scrittore comisano, è ben consapevole di ciò che permane e di quello che muta.  Egli scrive: 

«Restio o inetto a conoscere gente nuova, man mano che avanzo negli anni, e vedo assottigliarsi in plotone quello che fu l’esercito clamoroso delle facce consanguinee, amiche e domestiche, m’accorgo con pena del crescere d’una voragine tra il paese legale in cui campo, di sconosciuti che non mi parlano o mi danno del lei, e il paese reale, nella mia mente, dei morti. Poche centinaia censisco nel primo, lineamenti che non sanno scavarmi dentro e durare; migliaia nel mondo, che s’accampano sul muro delle mie notti, regalmente sicuri della loro inflessibile immortalità».

 Il brano, nella sezione del libro intitolata Piccole stampe degli anni Trenta, introduce lo scritto “Un fiore del ‘34”, in cui Bufalino, parlando di sé, confessa di nutrirsi ormai degli “assenti muti che dei presenti parlanti”. Ed egli li ritrova nelle fotografie percorrendo i viali del camposanto: “sono ora una galleria di foto ovali su porcellana, che mi guardano stupefatte”. La lezione di Barthes, più volte citato, gli è familiare: è la fotografia a sancire l’essere stato dell’evento. Legittimazione di vita, dunque, ma per lui anche di morte, riferendosi a Susan Sontag per cui una fotografia uccide l’oggetto nell’istante in cui se ne impossessa: “Poiché la fotografia”, scrive Bufalino, “è tutte queste cose a un tempo: … sanziona una perdita e vi sostituisce un simulacro immortale”[1]. La popolano spettri e fantasmi, e in questo c’è anche la magia del ri-essere. In breve, “la riappropriazione fulminea di una scaglia di tempo perduto” traduce l’assenza in presenza.

In Cere perse (1985), precisamente nello scritto "Una Kodak per Faust" (articolo del 1984), Bufalino focalizza l’attenzione sul fascino memoriale della riproduzione fotomeccanica, dove l’attimo del click ha molto di emozionante, di misterioso nel dare luce alle cose:  

«La fotografia è un peccato, probabilmente; è l’ottava empietà capitale. Se la creazione significa il declinarsi dell’informe in forme libere e varie, il flash che all’improvviso le paralizza non può che apparire un atto di trasgressione e di scandalo (…). V’è un fondo di perversità nell’insistenza con cui ci sforziamo di catturare la luce e d’intrappolarla dentro un rettangolo di cartone. E il reprobo Faust, ch’era disposto a vendere l’anima pur di fermare l’istante, chiederebbe oggi a Mefistofele non la gioventù ma una Kodak».

 Ciò che conta è il “fotogramma fulmineo” per fissare un mondo, un’identità personale e collettiva: si perderanno ineluttabilmente in lontananze ignote ma possono essere letti come documento socio-storico per le tracce significative lasciate nella lastra. Il mutamento antropologico che, secondo Bufalino, si è prodotto consiste nella sostituzione della lingua orale con quella scritta e visiva. Sicché, in seguito all’avvento della fotografia la memoria delle cose s’è fatta iconica fino ad intrecciare con la parola un rapporto insopprimibile e definitivo. Non gli sfugge il valore socio-storico dell’immagine come documento che fornisce informazioni sul passato (abbigliamenti, sguardi, mimiche, assetti facciali, attrezzi agricoli, mobili d’antiquariato, interni ed esterni signorili e rustici…).

   Commentando le fotografie di Gioacchino Iacono e Francesco Meli, le associa al mondo contadinesco narrato dal barone Serafino Amabile Guastella, la cui rappresentazione classista si tocca con mano via via che si scende nella gerarchia sociale. Sono loro signorotti di comuni viciniori del territorio di Ragusa: i primi due di Comiso; di Chiaramonte Gulfi l’aristocratico scrittore e demologo dell’Ottocento. Di Ragusa Ibla è Corrado Arezzo dei baroni di Trifiletti, il terzo fotografo dalla tecnica incerta ma di interesse estremo, alunno a Modica dell’Amabile Guastella. Destano curiosità i suoi cenni biografici nel capitoletto Il click impuro, datato 1986 e desunto dal volume Cere Perse. Interessante per esempio il gusto di una vita avventurosa specialmente negli anni universitari e la passione di fotografare nudi di donne: sicuramente le sue popolane con cui è da pensare che amoreggiasse.

Era la fotografia, tanto seria quanto attraversata dalla piacevolezza dell’evasione, a dare forse una fisionomia di minusco­la scuola fra questi amici “accomunati non solo dall’appartenere alla medesima classe ma altresì da un analogo proposito d’atten­zione nei confronti dei subalterni che imparzialmente chiamavano davanti alla macchina da presa, accanto ai soggetti signorili…”.
Così Diego Mormorio introduce il testo di Bufalino Il tempo in posa (2000): «Un’arte che oscilla tra le lapidi cimiteriali e i sortilegi dei fattucchieri: ecco cos’è stata, e per molti siciliani continua ad essere, la fotografia». E si riferisce a un piccolo numero di “fotografi per diletto”, dove figuravano personaggi come Capuana, Verga, De Roberto. Eloquente l’immagine di copertina del libro che evidenzia il valore della conoscenza attribuito dalle famiglie borghesi alla conoscenza: mostra una bambina con occhietti vivaci che sembra guardare lontano mentre poggia il brac­cio sinistro su un mobiletto dov’è collocato il mappamondo. Così, l’iniziativa della Sellerio di pubblicare il libro si arricchiva di altro materiale rispetto alla documentazione iconografica già presente nel volume Comiso ieri (1978). Ricreazione, gusto erotico, scampagnate, moda del vestire, sguardi severi e per lo più senza l’accenno d’un sorriso, volti tra il visionario e la pensosità, miseria contadina con­trapposta allo sfarzo signorile, figure e scene della vita dei campi di verghiana e guastelliana memoria sono i tratti emergenti dalle centotrentasette fotografie presentate in un ordito di affetti, oltre che di casta. Ogni autore faceva indubbiamente le sue scelte, e le scene offrono una visione antropologica dell’epoca. Nell’Antefatto, datato 1992, Gesualdo Bufalino scriveva: 

«Quindici anni fa, un giorno di luglio, il mio amico Gioacchino Iacono mi propose una gita nelle sue terre, a qualche chilometro dal paese, là dove sorgeva, tuttora intatta nelle sue strutture visibili, una di quelle dimore ottocentesche ch’erano un tempo in Sicilia capitali, santuari e presidii della civiltà contadina. Ecco la scoperta: più di quattrocento lastre di collodio gli si presentavano come “un tesoretto di faraoni”, risuscitavano il tempo trascorso come era avvenuto per il ritorno in vita di Lazza­ro: si sbendavano, aprivano occhi e bocche alla luce, ritrovavano il loro nuovo autore dopo essere state depositate in una scatola rinchiusa in un vecchio baule nascosto in soffitta».

     Di queste fotografie a interessarlo è la rilevanza memorialistica:

«È un mausoleo d’archetipi letterari, che si direbbero usciti dalle pagine del Gesualdo, dei Viceré, del Roccaverdina; è un dossier antropologico e sociostorico; un Bignami della memoria che oscilla fra il diario privato di un’estate remota e il giornale di bordo di una nékuia non meno tenebrosa di quella d’Ulisse, in virtù della quale risalgono dall’imbuto del nulla a chiedere udienza, quasi avessero bevuto il sangue di una grossa cimmeria, legioni di commoventi fantasmi».

La passione investigativa del nostro scrittore, che non si ac­contenta delle apparenze, è sorprendente. Appassiona il suo reso­conto sull’indagine svolta per decifrare il titolo d’un libro tenuto in mano da un uomo di mezza età: “in posa”, esclama Bufalino con fine ironia, “e tuttavia negligente abbastanza per dimenticare di abbottonarsi fino in fondo la patta dei pantaloni”. Niente­meno, a ulteriore testimonianza della circolazione della cultura europea in Sicilia, quel libro era “Quando noi morti ci destia­mo…” di Ibsen. Le immagini di una cultura signorile e rurale rappresentata dai proprietari terrieri (Cappeddi) sono in netto contrasto con la classe subalterna (Burritti), e Bufalino con lo sguardo dello storico si sofferma a considerare le rivolte dei Fasci siciliani e di altri eventi, quali la guerra d’Africa, che facevano pagare al sud disoccupazione e miseria: “Due anni ancora e i cannoni di Bava Beccaris avrebbero sparato sulla folla”.

 Pressoché inedita l’immagine di don Gesualdo che se ne ricava: egli è l’intellettuale-sociologo che non si mostra estraneo ai conflitti esplosi nel corso della storia del Paese, tracciandone un affresco fulmineo mediato dalla lettura puntuale dell’opera di Guastella Le parità e le storie morali (1884), soffermandosi sulla parabola esistenziale dello zio Clemente, uno dei tanti villani di Chiaramonte Gulfi. Ne riporta ampi brani e li commenta col proposito di dare un senso al personaggio, vissuto nel periodo in cui a morire nella Contea di Modica erano tanti per le precarie condizioni di vita. “Non si tratta di un’affabulazione letteraria”, chiarisce, citando il rapporto di Sidney Sonnino del ‘77. Questa in sintesi la sorte dello zio Clemente. Dapprima era stato un carrettiere spavaldo, dopo agricoltore per necessità e infine, da vecchio, s’era ridotto a mendicante per non essere di peso alla figlia che l’aveva accolto in casa dopo che la nuora l’aveva rifiutato. Fino a quando lo zio Clemente riesce a raggranellare qualche soldo, i familiari gli si buttano addosso per sottrargli il guadagno giornaliero. Non potendo più chiedere l’elemosina perché ormai ammalato, essi cominciano a trattarlo in pessimo modo. Alla fine, la figlia lo manda in ospedale, nonostante l’opposizione angosciata di lui. Lo zio Clemente, prima del ricovero ospedaliero, si era recato dal prete per chiedergli con i pochi soldi a lui rimasti il suono delle campane per l’agonia. Ma le campane non suonarono e la bara non fu nemmeno accompagnata sino al camposanto. In maniera spietata, dimenticato da tutti anche da morto, il becchino, dopo averlo frugato, esclama: «Maledetti taccagni! l’han mandato via come Giobbe. Non c’è da spigolare un centesimo. E lo butta con istizza entro una delle fosse pei poveri».

In definitiva, l’apparato iconografico è un repertorio di ceti e di fisionomie che Bufalino, non estraneo all’odore del tempo storico, ci propone con una spiccata sensibilità sociale. Sono le sue parole forbite a dare corpo ai poveri dei campi, la cui vita grama si differenzia nettamente dai borghesi che all’aperto e in posa elegante sorbiscono la tazzina di caffè. Riaffiora così un serbatoio di immagini, e con esse la fisionomia di un secolo fuori dall’idillio, dentro una storia inquietante che da lì a poco sarebbe esplosa.

 

Federico Guastella

 

 

[1]          G. Bufalino, Il mondo delle “Parità” nelle fotografie coeve di Iacono, Meli e Arezzo, Biblioteca comunale “Saverio Nicastro” Chiaramonte Gulfi, Leggio e Diquattro, Ragusa, 1992.

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