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  • Argomento: Storia, Mitologia

Dall’Argimusco alle Piramidi dell’Etna, un viaggio nel mito.

 

Che quello dei giganti sia soltanto un mito, è stato ormai chiarito dalle ricerche di anatomia comparata. L’argomento ha però in passato esercitato il suo fascino, tant’è che ha dato luogo a suggestive leggende.

Quella di Monte Erice in territorio di Trapani è sorprendente: narra di alcuni contadini che in una grotta scoprirono lo scheletro di un gigante assiso con in mano un enorme bastone. Appena uno di loro lo toccò, lo scheletro si disintegrò in una nuvola di polvere, rimanendo di lui tre denti molari enormi e parte del cranio.

L’origine dei giganti nell’immaginario collettivo nasce dall’esigenza di dare una spiegazione alle forze irrazionali e incontrollabili della natura. Un archetipo, dunque, per decifrare quanto non fosse stato possibile spiegare per mancanza di conoscenze scientifiche; un mito, in sostanza, che potesse far comprendere le alterne vicende nella lotta tra il bene e il male.

Quando si parla di giganti, in Sicilia l’attenzione va alle rocche dell’Argimusco: un altipiano dei Nebrodi, poco distante dal paese di Montalbano Elicona[1], in provincia di Messina, tra i 1165 e i 1230 metri sul livello del mare. Terra ventosa e nevosa, pressoché immobile, dagli inverni rigidissimi sotto il vigile sguardo della mole dell’Etna fumante.

Siamo nell’area, geologicamente caratterizzata dal Flysch silicoclastico di Capo d’Orlando con composizioni di granito, granuli di quarzo e più raramente calcare, in cui si registra la presenza di formazioni dalle forme bizzarre secondo il fenomeno della pareidolia[2]: si tratta di gigantesche rocce millenarie di arenaria, circondate dalle felci.

Gli studiosi si sono divisi tra coloro che assegnano una causa naturale e casuale alla loro forma e disposizione e quelli che le riconducono anche all'azione dell'uomo. Ci fu anche chi attribuì l'azione ai giganti, tant’è che sono chiamate “Pietre dei Giganti”. Per A. Orlando (specializzato in archeoastronomia e uomo di scienza all’Osservatorio Astrofisico di Catania), impropriamente definite “megaliti” giacché modellate dagli agenti atmosferici, sono da identificare come Marcahuasi di Sicilia[3].

Il luogo comunque è stato equiparato alle grandi strutture megalitiche dell'Europa settentrionale come Stonehenge, Carnac, Skara Brae. E si potrebbe datare la presenza dell’uomo nell’area sin dall’Età del Bronzo, testimoniata da reperti rupestri e alcuni manufatti ritrovati nei pressi delle pietre.

L’ipotesi più ricca di fascino è che fu scelto per l’osservazione astronomica e come spazio sacro per la celebrazione di sacrifici propiziatori a favore della fertilità della terra.

Paul Devins parla di medicina astrale-medievale, introdotta a Montalbano d’Elicona, in periodo catalano, da Arnaldo Villanova, autore del Rosarium Philosophorum, testo alchemico del XIV secolo[4].

Una formazione, la figura dell’Orante – o dea neolitica - con le mani giunte in atto di preghiera, ha ispirato a Melo Freni il personaggio femminile del romanzo "Marta d’Elicona"[5]. Ed essa è la sezione della “Rupe dell’Acqua”: così chiamata perché, sin dalle prime documentazioni cartografiche rinascimentali, l’Argimusco era associato alla presenza di una fonte. Una vasca intagliata dall’uomo nella roccia, ricavata sul suo punto più alto, dovette infatti essere utilizzata per officiare riti legati all’acqua[6].

Ecco altre indicazioni sulle rocce di bella attrazione visiva, tutte denominate dal prof. Pontano nel suo saggio, pressoché introvabile Megaliti di Sicilia del 1994). S’incontra “il Guerriero” o “il Sacerdote”, il cui profilo dal volto oblungo ha come occhio un foro nella roccia; una roccia dalla forma di rapace è denominata “l’Aquila” con il becco che punta verso sud e si scorge anche la “Grande Rupe”: una sagoma d’uomo detto “il Teschio” o “il Siculo”.

Via via che ci si inoltra matura la convinzione che il gruppo circolare abbia potuto rappresentare un punto di osservazione privilegiato da cui rilevare fenomeni equinoziali e solstiziali. Nelle vicinanze è possibile osservare resti di “dolmen”, appartenenti a una necropoli forse molto successiva ad essi. Da lì i pastori hanno tratto materiale da costruzione per i “cubburi”: abitazioni in pietra affini all'architettura nuragica[7] e ai “Sesi” di Pantelleria[8].

Sono le pietre a conservare i segni del cammino dell’uomo lungo i sentieri del mistero in quell’altipiano di terreforti e rocche, nonché di lunghi rigori, nevosi invernali.

Così Melo Freni:

«Nella parte più antica, la casa di Gregoriu era innestata in una parete di tufo da sembrarvi scavata ed era coperta con lastroni di granito, come tutte le altre case che sull’altipiano chiamavano cubburi, come per dire cubi, nonostante la loro forma fosse circolare e bassa, con coperture rigonfie in arditi e resistenti abbozzi di volta. Erano tanti i cubburi in tutta l’Elicona, qualcuno ne aveva contati fino a trecento, stabilendo che risalissero ai primi insediamenti pastorali, all’età della pietra, quando un re senza nome (la solita favola che tutti avevano ascoltato e raccontato) inseguendo un pastore che aveva ‘u calamòzzu fatatu, aveva deciso di fermarsi in quel luogo e rinunciando al flauto incantato aveva gettato le basi di quel grande castello che avrebbero chiamato Montalbano».

Dall’Argimusco giungendo a Randazzo, “civitas” dal 17 ottobre 1539 (titolo concesso dall’imperatore Carlo V e confermato alcuni giorni dopo da Messina), l’Etna si mostra nella sua magnificenza.

Le lave e le fumarole sono addolcite alle falde dal pistacchio di Bronte, dai noccioleti, dalla vista di un orlo di mare. Le ha rese fertili il lavoro paziente e tenace dell’uomo. Anche il ricco, speciale humus vulcanico è stato oltremodo vantaggioso. La frase d’addio alla Sicilia di Goethe sembra proprio dettata dalla visione di questo luogo, ritenuto allora non benevolo alla presenza insediativa: Qui abbiamo veduto gli sforzi degli uomini per resistere contro le violenze della natura, contro la perfidia maligna del tempo, contro il furore delle sue stesse discordie e ostilità”.

Aveva ragione il coltissimo viaggiatore. Civiltà agro-pastorali millenarie in una terra piena di spuntoni lavici hanno faticosamente lavorato la dura pietra malgrado la potenza distruttiva della corpulenta montagna, sempre in agguato.

Tante le tracce di lava rappresa, segno tangibile d’una Sicilia ritualmente magica. Si sarebbe di certo stupito il famoso viaggiatore se avesse visto le piramidi dell’Etna. Ai piedi del Monte, nella campagna da Linguaglossa ad Adrano, sorgono infatti misteriose strutture, una quarantina se ne sono contate, a gradoni o coniche su base rotonda o quadrata, alte fino a quaranta metri.

Insieme alla scoperta di sistemi di canalizzazione, hanno fatto pensare allo stanziamento di un’antica civiltà. È stato anche ritenuto che, a testimonianza dello stretto legame dell’uomo con le potenze ctonie, fossero stati templi di adorazione del “Vulcano”[9].

Associate alle piramidi di Güímar, nell’arcipelago delle Canarie, alcuni studiosi le hanno attribuite all’opera dei Sicani, prima dell’arrivo dei Siculi (cioè, prima del XV sec. a.C.). Per altri, sarebbero state costruite dagli Šekeleš (o Shekelesh), una tribù della confederazione dei Popoli del Mare, proveniente dalla zona del Mare Egeo (antenati forse dei Siculi o i Siculi stessi).

Sulla sommità si svolgevano probabilmente riti propiziatori come esorcismo che liberasse dalla minaccia della lava incendiaria. Un modo forse di entrare in confidenza con il Vulcano, perché risparmiasse uomini e cose dalla furia devastatrice.

Siamo nell’immaginario archetipico come risposta alle oscure correnti del caos, tant’è che ricorrente dovette essere la paura incombente dall'alto.

Viene in mente di Renato Guttuso “La fuga dell’Etna” (1939), opera di esordio che durante un’eruzione mostra la popolazione, minacciata dal fuoco: si muove tra il panico, e tragica è la scena resa vibrante dal sapiente cromatismo del pennello.

Federico Guastella

 

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(credit immagine: I viaggi di Vera Classe)

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Note:

[1]          Il borgo, costruito a 920 metri sul livello del mare, ha un imponente castello svevo-aragonese, edificato tra il 1302 e il 1311, in epoca aragonese, dal re Federico III di Sicilia, sorge su un primitivo impianto di probabile epoca sveva. All’interno sono visibili uno dei due torrioni di avvistamento, il palazzo residenziale dove per qualche periodo soggiornò anche Federico II, e la piccola cappella palatina con il sarcofago dell’alchimista Arnaldo da Villanova, sormontata da una volta di pietra in cui sono visibili i resti di pitture decorative del tempo.

[2]          La pareidolia o illusione pareidolitica (dal greco εἴδωλον èidōlon, "immagine", cona la preposizione παρά parà, “vicino”) è l’illusione subcosciente che tende a ricondurre a forme note oggetti o profili (naturali o artificiali) dalla forma casuale.

[3]          Machahuasi è un altipiano peruviano della cordigliera delle Ande che presenta formazioni rocciose erose dal vento, con sembianze umane.

[4]          Paul Devins – A. Musco, Argimusco decoded, Barbelo&Sophia, Lulu, 2013.

[5]          M. Freni, Marta d’Elicona, Editori Riuniti, Roma, 1987.

[6]          A sud est il magnifico palmento rupestre pentagonale interamente scavato nella roccia è uno degli elementi che fa pensare all’antichissima abitabilità dell’area da comunità indigene, frequentata forse dalle genti di Abakainon, città siculo-greca che sorgeva nelle vicinanze.

[7]          Nuragico il paesaggio della Sardegna e nuraghi sono denominati i poderosi monumenti turriti di forma circolare e per lo più dalla forma tronco conica. Il nome, dal doppio significato, derivante da “nurra” che significa "mucchio", "accumulo", ma anche "cavità", ben si adatta a una costruzione venuta su per "accumulo" di pietre dalle notevoli dimensioni e progressivamente più piccole via via che aumenta l'altezza. Varie le ipotesi sulle funzioni d’uso: templi, luoghi di culto, torri di avvistamento, abitazioni, oppure osservatori astronomici? Tante le interpretazioni sull’etimologia della parola nuraghe (“il nuraghe”, al singolare). La radice fenicia “Nur”, che per alcuni studiosi significa “Fuoco”, fa pensare a culti solari senza che per questo venga esclusa la destinazione a difesa del territorio e anche a carattere funerario come le “tombe dei giganti”: sepolcri collettivi senza distinzione di rango e spesso utilizzate come ossari (G. Lilliu, La civiltà dei Sardi dal neolitico all’età dei nuraghi, ERI, Torino, 1967).

[8]          A Pantelleria, l’isola non grandissima il cui periplo è circa 36 chilometri, si arriva da Trapani, impiegando otto ore di mare; con l’aereo bastano venti minuti e poco di più. Il verde dei vigneti e dei capperi dal cespuglio basso, e il nero delle lave del vulcano i colori della poca terra. Ha scritto Cesare Brandi in Sicilia mia: “Niente è più ameno di queste casette e rosa o bianche o anche nere, ma con le cupolette affioranti, sempre in ordine sparso, anche dove fanno paese ma non s’ammucchiano, e ognuna respira da tutte le parti e ha il gelso a fianco, la palma, la pergola”. Con il termine sese nel dialetto pantesco è indicato un qualsiasi mucchio di pietre. Nel 1898, la spedizione archeologica guidata da Paolo Orsi ha potuto stabilire con certezza che si tratta di monumenti sepolcrali.  All’interno furono ritrovati numerosi inumati con il rispettivo corredo funerario. Costruzioni quindi megalitiche, simili ai Nuraghi sardi. Sono strutture a tronco di cono, a pianta ellittica o circolare.  Ad ogni giro di posa fu realizzato per la costruzione un camminamento che permettesse il passaggio dei blocchi via via che si procedeva in altezza, sormontati spesso da una cupola conica. Venivano eretti fuori delle mura del villaggio: non su alture, ma su aree più piane.

[9]    Non è un caso che “Vulcano”, nato da Giunone per partogenesi e identificato poi con il greco “Efesto”, sia stato per i romani il dio del fuoco terrestre e distruttore. Gli venivano eretti templi fuori dalle mura cittadine, per evitare che il fuoco sacro potesse rivolgersi contro le abitazioni e al suo culto e a a lui erano dedicate festività in occasione delle quali si svolgevano i Ludi Piscatorii, giochi in onore dei pescatori del Tevere sull'altra riva del fiume rispetto alla città. Pare che durante questa festa la gente usasse appendere abiti o stoffe al sole; secondo Dumézil la pratica rituale potrebbe riflettere un legame tra Vulcano e il dio Sole. Un'altra usanza consisteva nell’iniziare a lavorare con la luce di una candela, probabilmente per auspicare un uso benefico del fuoco legato al dio.

 

 

 

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