Cultura
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Ragusa, 21 maggio 2015 – “La poesia, oggi, è un modo per interrogarsi sul senso dell’esistenza, ridare voce all’identità dell’uomo e offrire alla comunità un’angolazione prospettica diversa”. Queste le parole con cui Rossella Palmieri (Università di Foggia) annuncia con emozione il “Festival internazionale della poesia” che si terrà in provincia di Foggia, il 21-22 e 23 maggio a San Marco in Lamis (teatro del “Giannone”) che, per l’occasione, si trasformerà in “San Marco in Libris”. 

Si tratta di una manifestazione letteraria che, promossa ed organizzata dall’Unitre di San Marco in Lamis col patrocinio dell’Università degli Studi di Foggia e del sammarchese Istituto di Istruzione Secondaria Superiore “Giannone”, vedrà la partecipazione di poeti provenienti dall’Ecuador, Cile, Messico, Colombia, Spagna e dall’Italia. Vincenzo Guarracino, Walter Raffaelli e il poeta e narratore ibleo Giovanni Occhipinti rappresentano la triade italica cui è stato affidato il compito di impreziosire le serate con i loro contributi critici.

Perché il Festival e perché la poesia? “E’ un’occasione molto importante, per la città e per il territorio, che offre la possibilità di ospitare qualificati esponenti della cultura poetica e letteraria provenienti da diversi paesi e città dell’Italia e del mondo”, spiega con orgoglio Raffaele Cera (presidente Unitre), aggiungendo che “la poesia mira a cogliere momenti ed aspetti che hanno in sé una carica di fascino e di mistero e attraverso la parola illuminare e rivelare la forza della verità che in quel mistero si cela”. 

Allo scrittore Giovanni Occhipinti il piacevole onere di aprire la serata inaugurale con le riflessioni “Il sostrato giobbico della poesia e della narrativa nel dolore del mondo”, il cui obiettivo principe è quello di individuare ed evidenziare le domande radicali sul significato dell’esistenza che contraddistinguono il cammino esistenziale degli scrittori del secolo scorso. Si rivelano non pochi gli assilli presenti nella produzione letteraria del Novecento, non solo italiana, “insieme al dolore ai sussulti ai subbugli alle follie alla spietatezza alle atrocità del mondo”. Si tratta degli interrogativi che riguardano l’esistenza dell’uomo e il senso che essa ha o, per taluni scrittori, rischia di non avere, minacciata com’è – continuamente e inevitabilmente – dalla morte e da tutto ciò che della morte è, nella vita stessa: la malattia, il dolore e la sofferenza, la violenza dei più forti contro i più deboli, la libertà abusata, il tradimento della giustizia e la manipolazione della verità. «Tutto questo – spiega Occhipinti - si condensa negli interrogativi e nelle tensioni e pulsioni e smarrimenti di tanta poesia e narrativa. Basti pensare ai “Canti dell’infermità” di Clemente Rebora; al grande dramma teologico di Giorgio Caproni e di Dario Bellezza consumato dal cancro; a “Ballate ebraiche” di Elsa La-sker-Schüler e alla sua penetrante domanda, lacerante e gridata: “Dio, dove sei?”; e James Agee, e Jean Cau con i suoi personaggi ne “La pitié de Dieu” (che ispirò a Bufalino “Le menzogne della notte”)», fino all’estremo interrogativo sull’esistenza di Dio. 

«Relativamente al dolore dell’uomo e al suo simbolo, Giobbe, mi preme dire – chiarisce Occhipinti - che trovo più umano e più razionale, nel Salmo 102 (101), il lamento desolato che si fa preghiera: “Io veglio insonne, divenuto eguale/a un passero solingo sopra il tetto./Tutto il giorno m’oltraggiano i miei nemici,/e imprecano furenti alla mia sorte”. 

È qui tanta letteratura del Novecento: nel problema scottante di Giobbe, cioè nello smarrimento e nel dolore dell’uomo a causa del Dio nascosto. Noi, pur mendaci, violenti, ladri, assassini lo vorremmo accanto, come una sentinella, una balia, una guardia del corpo che allontani la sofferenza, il disagio quotidiano, la povertà, l’ingiustizia, l’odio, la persecuzione, e persino la nostra stessa perfidia e persino i nostri stessi miserabili inganni. È difficile comprendere tutto ciò, ma osiamo desiderarlo, questo Dio, sino allo spasimo, a dispetto dei nostri stessi difetti o forse proprio per questi». 

 

Giuseppe Nativo

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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