Cultura
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Presentazione del libro postumo “Oltre la tela del ragno che m’invento”

 

Ragusa, 26 ottobre 2015 – Avvocato, poeta e politico di razza. L’uomo dalle mille passioni. Amico di Bachelet e La Pira. Così lo ricordano in tanti e in maniera univoca. 

Emanuele Giudice fu alla guida della Provincia regionale di Ragusa, dal 1985 al 1986 e, in seguito, dal 1987 al 1988. Un impegno da uomo dello Stato che lo aveva già visto in prima linea ricoprendo il ruolo di consigliere e assessore provinciale alla Cultura e alla Pubblica istruzione assunti a cavallo tra gli anni ’80 e ’90. “Una fede, mai bigotta. Una fede, semmai, agostiniana nella continua ricerca di Dio negli uomini”, così lo ricorda don Mario Cascone (“La Sicilia, 28.11.2014, p.33), direttore responsabile del quindicinale “Insieme”, cui Giudice fu tra i primi e qualificati collaboratori. 

Un appassionante impegno civile, culturale e politico caratterizzava la sua figura che si nutriva incessantemente dei valori del cristianesimo più vero e genuino sintetizzato in quel titolo dato ad un suo saggio “A sinistra perché credo” (presentato a gennaio del 2010 al Teatro comunale di Vittoria e che ha registrato gli interventi, tra gli altri, del senatore Stefano Ceccanti, Ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Roma e già Presidente Nazionale della F.U.C.I., del senatore Giuseppe Lumia, Vice Presidente della Commissione Parlamentare per la lotta alla mafia e già Vice Presidente Nazionale della F.U.C.I., e del professore Luciano Nicastro, filosofo e scrittore). 

“Egli costituisce esempio di integrità morale, generosità politica ed impegno di servizio culturale per tutta la Chiesa diocesana e la società iblea” (comunicato stampa n. 318 del 26 novembre 2014 diramato dall’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Ragusa).

“Per la mia generazione è stato un maestro e guida”, lo ricorda così il giornalista Giovanni Molè (segretario provinciale Assostampa Ragusa). “Ci lascia una splendida eredità”, lo commemora così il sindaco di Vittoria, Giuseppe Nicosia (“La Sicilia, 28.11.2014, p.33).

“Riusciva a mantenere rapporti democratici e leali non solo con le forze di coalizione ma anche con l’opposizione”, scrive Giovanni Pluchino, decano dei giornalisti ragusani.

“Riusciva a mantenere, anche nei momenti più caldi nel corso delle sedute del consiglio provinciale, un tono pacato, mai andando in escandescenze, mai offendendo gli avversari, ma sempre cercando, pur con fermezza, il dialogo. Quando venne eletto presidente per la seconda volta Emanuele Giudice mi volle ancora al suo fianco. […] Qualche giorno dopo mi disse che aveva pensato alla istituzione di un organo di informazione proprio dell’ente Provincia, con me a dirigerla. Nacque così, con il suo prezioso supporto, la rivista bimestrale “La Provincia di Ragusa”, ben presto apprezzata in tutti gli ambienti. […] Ha avuto un’attenzione particolare per l’arte e la cultura” (“La Sicilia”, 27.11.2014, p.31).

 

A ricordarne la personalità e tracciare le doti di scrittore è stato il poeta Giovanni Occhipinti in occasione della presentazione – dallo stesso curata - del toccante libro postumo di Emanuele Giudice, “Oltre la tela del ragno che m’invento”, tenutasi sabato 24 ottobre a Vittoria.

L’iniziativa culturale è stata promossa dall’associazione “Cultura è Vita” che in tale occasione si è fatta partecipe della intitolazione della Sala Conferenze ex Chiostro delle Grazie (piano terra) al compianto Emanuele Giudice.

Tra gli interventi programmati: lettura di brani a cura di Gianni Battaglia (regista e attore), Eleana Giudice (architetto).

 

Per i lettori di Ondaiblea pubblichiamo la sintesi dell’articolato intervento che lo scrittore e critico letterario Giovanni Occhipinti ha curato nel corso dell'iniziativa...

 

Giuseppe Nativo

 

***

EMANUELE GIUDICE OVVERO L'INQUIETUDINE INTERROGANTE

Emanuele Giudice è stato autore di temi e motivi che si inscrivono nelle grandi problematiche da sempre presenti nell'uomo. Ne segue, nelle sue opere, una trama sofferta di meditazioni-riflessioni nella quale egli organizza e modula, sviluppandoli, gli assilli esistenziali e teo-filosofici, insieme alla poetica e al poieín, il far poesia, il suo far poesia, appunto.

Giudice attinge da una materia calda ma fluida, difficile, sfuggente, dove nulla è scontato: quella che riguarda l'eternità e schiude percorsi, talora tortuosi, nelle cavità ctonie della vita, ma per continuare, forse, a negarsi alla luce del pensiero del povero cristiano, al quale però offre l'opportunità dei grandi dilemmi: potersi alimentare alle connessioni con la teologia della fede e soprattutto alla sua problematicità e conflittualità, attraverso interrogazioni che si accostano alla teopatia di un Giovanni Testori in Conversazione con la morte, Ossa mea, Nel Tuo sangue; o in Ultime poesie di David Maria Turoldo, il cui sostrato profondo ci fa riflettere sul fatto che l'arrivo di Dio coincide col dolore estremo della Croce. Da qui, l'andamento, sul piano espressivo, monologante di questa poesia, che insiste, si dilata e verticalizza su punti nevralgici dell'esistenza-oltre, via via approfondendo la condizione dell'amare e del soffrire dell'uomo, in senso reboriano: "Ricordo/il tempo in cui smarrito/affranto/ti chiedevo/Signore, dove sei?/[...]/ti sottraevi al mio assillo,/al mio penare./Negavi/il tuo fievole bisbiglio". Non diversamente si esprimeva Clemente Rebora dal monastero di Stresa, luogo di sofferenza, di preghiera e di contemplazione.

 

Già dagli anni Novanta, i primi esercizî di scrittura poetica di Emanuele Giudice nascono intorno alla metadomanda, affranta e insistita, sull'Oltrefisico, la quale nel tempo, definirà il nucleo tematico di tutta quanta la produzione poetica e che ritroveremo, come stigma, come ferita nelle opere più significative e sofferte: da Monologo per la pietà a Finale d'avventura; da Il dolore e la luce a Il tarlo di Caino, I colori del buio sino al toccante libro postumo: Oltre la tela di ragno che m'invento (2015). Ma possiamo anche dire che tutta la poesia di Emanuele Giudice sia riassumibile in quel detto di Anonimo in esergo al libro I colori del buio: ″Ciò che non sapete, o meglio che non potete sapere, è più importante di ciò che sapete. Il buio non distrugge ciò che nasconde″. E' tutto qui il nucleo caldo della poesia di Emanuele. Persino la nota civile, che pure c'è - eccome! - nel politico Giudice, è assolutamente secondaria rispetto al travaglio interiore, ai grandi assilli dell'anima, ai rovelli per l' "Altro", essendo sovrastata da un'inquietudine curiosa di conoscenza e interrogante, che potremmo definire agostiniana quando raggiunge i toni sofferti della contrizione e dell'autocensura; o si fa lamento sul vuoto esistenziale, sul silenzio metafisico, sul dubbio, sulla incertezza; ma tutto ciò non nega però spazio alla tensione di una preghiera di speranza e di rassegnazione.

 

Noi, oggi, ci soffermeremo sul libro di versi che Emanuele non ha potuto rileggere, cercando di ripercorrere la trama di questa sua "tela", che certamente egli avrebbe voluto ritramare, se solo gli fosse stato concesso un pietoso supplemento di tempo. E dunque, ripercorriamola questa trama, che si rivela nei suoi contenuti attraverso la poetica dell'addio sintetizzata nella dedica alla nipotina Emanuela. Vi sono sparse gocce di saggezza per un breve ma intenso testamento di etica dell'esistenza, che è e resta il sostrato spirituale profondo della poesia di Giudice, uomo e intellettuale che conobbe e patì la vita e le sue tristezze, quasi una propedeutica al destino del dolore umano che già reca con sé la dimensione imperscrutabile, e sempre affannosa, della trascendenza: "[...] oltre i fili della rete/si aprono stupori/al curioso sbirciare/al di là della meta e del sogno" (Oltre la tela di ragno che m'invento).

 

Sì, è il libro dell' "ultimo tempo" questo di Emanuele, il quale, come si diceva, ha vissuto l'assillo della grande domanda sul destino escatologico dell'uomo, ma anche sul suo personale esilio di solitudine e di sgomenti. Basterà isolare qualche sintagma tratto dai suoi versi per sentire il peso del suo-essere-solo nel dolore di creatura umana, esposta alle aggressioni della vita: "malori del giorno", "intricate trame", "indecifrabili ragioni", "tentacoli del giorno", che sono anche locuzioni che definiscono la condizione umana attraverso cui si tenta di "interloquire con l'immenso"; si tenta di "prenotare l'eterno" per l' "euforia del dopo", l'éschaton.

Una poesia di presagi, nella quale il poeta vive ed esprime la nostalgia dell' "Altro", ricercando, nella metafora, una parola disvelatrice del mistero nel gran "cruciverba" dell'esistenza: "Aspetto di capire l'arcano/dell'incerto che si cela all'incontro/di sillabe e di suoni/riportati sulla carta" (Cruciverba). E' evidente il cruccio del "dopo".

Emanuele viveva la contraddizione di uomo razionale, ma col pensiero a Dio, sempre teso alla verifica del dubbio, al timore, al sollievo delle promesse evangeliche e attento alla lettura della parola profetica di Cristo: "e il volo che vorremmo spiccare/verso un cielo/ardito di promesse e doni" (Iperboli). E' evidente l'assillo di un travaglio che sfocia nella ricerca della parola più idonea a lambire il mistero della trascendenza, al di là della "palude" terrena, metafora dantesca di forte effetto. E' qui che la poesia di Emanuele Giudice vive, nei suoi momenti più intensi e smarriti, gli struggimenti della fine, la tirannia del dramma che chiude una vita: "So/che il gioco volge alla conclusione/-lo so da gran tempo-/e costruisco mesti tranelli/per sfuggire alla tenaglia" (Il guado). Consuntivi e sguardi generano motivi tematici sulle struggenze degli ultimi momenti, come qui, in Piccoli amori: "Lo sai?/Ho visto due coccinelle innamorate, […]./Sembravano appagarsi/dell'esile dono della vita..." (Piccoli amori). Sono questi i momenti, più intensi e coinvolgenti, nei quali Emanuele leva alte note sapienziali: è quando si abbandona alla contemplazione del tempo trascorso e alla sua caducità. Da qui, i ricordi confusi col sogno nel quale è intravista la morte; ed ecco riemergere il suo sentimento per la vita ovvero l'umano attaccamento alle vacue cose quotidiane: "Vorrei fermarmi/e assaporare il tempo/a lungo/nelle piccole voglie titubanti/che aprono la mente/all'indicibile piegarsi delle ore/lasciandosi catturare/nella rete corta della vita" (Pausa). Il poeta insisterà su questa metafora per esprimere con più incisività il pensiero estremo, suo assillo e sua pena: "Io misuro il mio tempo/distillando memorie/di ciò che non c'è più" (Misurando il tempo). Quasi un rifugio nel passato per riviverne il conforto o forse verificarne l'inafferrabilità.

Colpisce il lettore, l'attento e minuzioso scrutare la vita intorno per percezioni, come attraverso la lettura della semantica dei segni: Giudice ne segue le mutazioni per poi abbandonarsi all'attimo rivelatore della dissolvenza.

Al lettore non resta che leggere questi versi come altrettante sequenze rassegnate di momenti che sfumano in altro tempo, in altra dimensione: "E noi siamo soli/in questo guazzabuglio/di numeri/e di frecce/orientate in tutte le direzioni" (Come mai?). Siamo alla nota alta e struggente di queste ultime poesie penitenziali, che invocano la grazia di un percorso o di un destino di redenzione e di pace. Un calvario intellettuale punteggiato di domande che non trovano risposta se non nel silenzio metafisico, forse nei suoi buchi neri.

Non possiamo non riflettere sul fatto che la lirica di Emanuele ausculta le apprensioni e i silenzi dell'essere e definisce, nei suoi scavi, l'angoscia, il tremore e il timore kierkegaardiani per diventare consapevole della propria esistenza, ritrovare se stesso e il proprio mondo interiore, in vista dell'attesa e del momento estremo dell'approdo e dell'incontro.  Ascoltiamolo, per concludere, in questi versi: "[...]/ attendo qualcuno che mi chiami/quando verrà il mio turno/per entrare..." (Sala d'aspetto).  Alla fine comprende che bisogna abbandonare la vita, questa vita, per saperne finalmente di più. E' la conoscenza del ″dopo″, quella che lui definisce ″euforia del dopo″, su cui, per almeno un trentennio, Emanuele ha potuto costruire tutta la trama della sua tormentata vicenda poetica di uomo e di intellettuale, che cercava nello svelamento del mistero la forza per l'inevitabile distacco dalla vita.

 

Giovanni Occhipinti

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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