Libri

L’ardente opera poetica di Pedro Luis Ladrón de Guevara 

 

Il titolo, Tornerò dov'ero, un'allusione al primitivismo delle origini contro la disumanizzazione dell'era contemporanea? Un rifugio di salvezza per una civiltà nuova e nobilitante, non gravata e degradata dal peso assurdo della violenza e della sopraffazione, hobbesianamente lupesca? Certamente, questo e altro ancora. Parliamone, parliamo dell'accoramento di questo poeta spagnolo, di Murcia, Pedro Luis Ladrón de Guevara, italianista e autore di opere di poesia, di narrativa e di saggistica letteraria: un poligrafo, insomma, immerso nei ricordi ovvero i sogni di un passato che si fa desiderio e fuga dal presente, cioè dalla realtà degli affanni di una Storia ripudiata, da vilipendere, dimenticare: quella delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle persecuzioni, dei soprusi, delle barriere dove “L'umanità svanisce, si spegne/ [...]”. E in tutto questo assistiamo alla celebrazione di un'elegia che diviene religio della vita. C'è uno strazio nel cuore di questo poeta: la sorte dei migranti ovvero degli “ultimi”, che già ai primi del '900 scossero la sensibilità di uomini e grandi intellettuali come Benedetto Croce, Edmondo De Amicis, Mario Rapisardi, per non dire della filantropa - cent'anni fa - Francesca Cabrini, che costruì a Chicago un ospedale per loro. Ebbene, Pedro Luis è di quelli che vanno verso una coscienza universale e una civiltà cosmopolita; e sa bene che è in atto una trasformazione geopolitica epocale a causa del flusso migratorio.

È come se condividesse (e certamente è così) le istanze di quel Breviario Mediterraneo di Predag Matvejevic che già nel 1987 aprì la mente di tanti alle grandi riflessioni sull'uomo e sulla Storia. Oggi, l'emigrazione e i migranti sono al centro dell'attenzione della “Biennale Internazionale di Fotografia” dedicata al tema: “Mediterraneo, immenso archivio e profondo sepolcro”; e credo di non sbagliarmi, affermando che il nostro Poeta abbia tenuto in considerazione tutto questo, concependo i suoi versi, insieme ai grandi problemi di un Medio Oriente in pericolosa ebollizione. Penso, tra gli altri Stati, alla Siria, a Israele, alla Palestina. Ma l'arte, si sa, nasce anche dal sangue del mondo, ahimè! Ce ne dà ragione il componimento L'umanità svanisce, i cui versi mi ricordano quelli di Justo Jorge Padrón laddove, in E se Dio si stancasse di noi, dice: “Per non farci più amare/ verserebbero su di noi l'ambizione, / l'invidia, la violenza, la lussuria, l'odio...”; ma mi ricordano anche l'altro grande poeta spagnolo Manuel Vásquez Montalbán, in Morirà questa storia nella Storia (cfr: Il desiderio e la rosa): “di esplosione negli occhi/ frantumeranno le schegge/ della città vinta/ i corpi sono il mio corpo/ vita storia rosa carrarmato ferita”. Nell'uno e nell'altro vi ritrovo il pensiero critico del trappista Thomas Merton, soprattutto là dove affiora il rifiuto del materialismo consumista e l'anelito alla pace costruttiva tra i popoli della terra. Mi pare di cogliere il sospiro affranto del poeta nell'ossessiva auscultazione della natura che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dell'uomo sui propri simili: una storia che indispettisce il mondo e offende Dio. Ecco, questo di Pedro Luis è un teatro dello smarrimento e del dolore: qui, è l'elegia della Storia che nel dolore esistenziale rasenta la preghiera e diviene misura dell'ingiustizia dei confini e delle civiltà che si guardano in cagnesco.

Il lettore attento non può non notare che questa poesia, assai problematica, è costruita su segni di mutazioni epocali e che il cruccio e l'ansito civile contenuti nell'ansia delle parole ferite dalla rivolta o dall'indignatio del pensiero si fa condanna della Storia e, per contrasto, larvata speranza dell'uomo che vuole rinascere, come qui in Primato: “Rinascerà il pianeta:/ cancellerà Natura/ l'impronta prepotente/ distesa nella Storia/ da questo essere ingrato. / Umano poco umano”. Più di una tensione civile! E' tensione evangelica, ma anche condanna insistita contro il negativo e il destruens del mondo. Come un anatema che nega, nel grido, “il futuro del mondo”, prospettando la minaccia della fine. E se vogliamo dire di più: tutto il discorso poetico di Pedro Luis è riassumibile nelle parole toccanti di Esodo: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto”.

Come si vede, l'attenzione all' “Altro” qui è espressa attraverso la poetica dell'umanitarismo civile e biblico, come per esempio nelle allusioni in Non sarai corpo: “che hai fatto per quei popoli/ assediati dalla fame/ per quei figli dagli occhi grandi/ e dagli ancor più gonfi stomaci”. Siamo al momento cruciale dell'êthos biblico del “dopo” o dell'éschata, le cose ultime, ovvero la resa dei conti a Dio: “[...]/ guarderai il Suo volto senza confini/ e vedrai in un istante la tua apatia/ intinta nello sconforto/ dei popoli innocenti”. 

Il solco di Romolo e il fratricidio: la morte di Remo per mano del fondatore di Roma, secondo la leggenda; il confine, nel concetto rousseauiano secondo il Contratto sociale: delimitare una proprietà è già un segno di inimicizia verso l' “Altro”, il vicino, il confinante che si deve attenere a regole precise, pena la guerra e la morte. Questo motivo ritorna nel testo Rompendo le frontiere: “Non tracciare, figlio mio, / sulla mappa le frontiere. / Non solcare il planisfero/ con dei tratti in carboncino”.

Ebbene, questo motivo ritorna, più drammatico, in Lacrime sul mare: “Il figlio perso nella notte/ solcata da fragile zattera/ da un vecchio Continente a un altro, / dalla guerra crudele alla pace,/ da quasi assoluta miseria/ alla speranza in un domani”.

Che dire?, in questo libro c'è tutta la cronaca cruenta, drammatica della Storia contemporanea mondiale, dove la morte regna sovrana e sovrano è il simbolo del disprezzo della vita. Si leggano in questo senso i versi di Morire per te, che suonano come un avvertimento Ai membri di alcune ONG, a cui il testo poetico è dedicato. Soprattutto come disprezzo anatema condanna: “Sopravvivere a tante armi vendute/ da padroni con i diamanti al collo. / Campo di rifugiati, di massacrati/ bambini. I missili pagano il caviale”.

E’ il canto del tragico intonato sulla nota alta e toccante della Babele del mondo sempre più posseduto dai disvalori del crimine per i vecchi trenta denari

Giovanni Occhipinti

 

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Pedro Luis Ladrón de Guevara

(Cieza, 1959) Insegna Lingua e Letteratura italiana all'Università di Murcia. Si è occupato, con studi e traduzioni, di numerosi scrittori italiani classici e contemporanei, tra i quali Leopardi, Campana, Ungaretti, Luzi, Caproni, Magris, Tabucchi. Come poeta ha pubblicato Itinerarios en la penumbra (2003), la raccolta bilingue ispirata all’Italia Cuando la piedra habla/Quando la pietra parla (2004), Escarcha sobre la lápida (2007), Del sudor de las sirenas (2015). Tra le sue opere narrative si segnalano i racconti di Los mundos de mi mundo (2005) e El donante y otras historias (2015) nonché il romanzo La campana rasgada (2013).

Coltiva anche l’arte della fotografia, come testimonia il volume Viaggio in un’Italia senza tempo (2015) che riunisce insieme versi e immagini dedicati al nostro paese.

Ultima fatica letteraria Tornerò dov’ero (2018, pp. 82)

È una missiva molto garbata, ma anche un po' amara, quella che Salvatore Cosentino, fine scrittore di Mirabella Imbaccari, scrive a Gesualdo Bufalino il primo marzo 1988. Una lettera, fino ad oggi inedita, che prende luce e vita nella pubblicazione a stampa della sua recente fatica letteraria “Messaggi di lingue tagliate. Storie siciliane” (G. Onorati editore, Canterano-Roma, 2018, pp. 252), sorta di mosaico i cui tasselli di vita vissuta - talora sofferta e rassegnata, talaltra ironica e graffiante - incastonati nel murmure quotidiano di vita locale, forniscono abbondanti razioni di pillole di genuina e vetusta saggezza. Un insieme di racconti che sono rimasti per tanto tempo in un cassetto e che nella seconda metà degli anni ‘80 sono stati apprezzati tantissimo dallo scrittore casmeneo da trarne spunto per scrivere un elzeviro per “Il Giornale” di Montanelli e ispirazione per un capitolo de “La luce e il lutto” pubblicato dalla Sellerio nel 1988.

L’incontro con Bufalino, confessa il nostro, fu all’insegna di una “confidenzialità quasi familiare”. «Mi è piaciuto anche il titolo Lingue tagliate utilizzato dal “Giornale”», aggiunge con emozione Cosentino. Proprio da quel titolo trae origine quello dato adesso al suo recente libro che, con le sue dimensioni un po' ridotte, si presta molto bene a stare in borsa e magari leggerlo in pullman.

L’opera è ricca di graziose pennellate narrative e, soprattutto, di sensazioni. Emozioni narrate e raffigurate in maniera letteraria da fare apprezzare ancora di più la Sicilia verde del carrubo, quella bionda del miele, evocando sensazioni bufaliniane e quasi a superarle. Quella di Cosentino è una quotidianità siciliana ricca di sfaccettature. Nei suoi mini-racconti, da leggere tutto d’un fiato, trova giusta collocazione quella “umanità minore” che non fa cronaca a cui è restituita una dignità. Una “umanità minore” che “soffre e gioisce in decoroso silenzio”, che ha, appunto, la “lingua tagliata”, soffocata, impedita. In questa dimensione lo scrittore mirabellese si fa portavoce, in maniera puntuale e graziosa e talora delicata, dei “messaggi” di questa “umanità minore” rappresentata dai personaggi raccontati, dai loro modi di fare, da quello che dicono, dai loro volti, che vanno a “sintetizzare un romanzo non ancora narrato”.

In questi racconti, ritagliati su misura dalla sapiente forbice letteraria dello scrittore mirabellese, anche gli oggetti assumono una loro personalità come lo “specchio guardone” di un negozio di abbigliamento che sente l’incalzante bisogno di dare sfogo a non poche emozioni represse in lunghi anni di attività. Pure i luoghi sembrano avere un’anima come la “piazzetta dello speziale” (esistente in quel di Mirabella Imbaccari) che trae la sua intitolazione proprio per la presenza dell’ottocentesca farmacia del paese, di proprietà del nonno paterno dell’autore, crogiolo tra l’altro di critica politica dai toni pungenti pro o contro i Borboni, o di notizie anticlericali finte che avevano come obiettivo il parroco.

Quelli di Salvatore Cosentino sono echi le cui tracce sono ancora presenti nelle piccole realtà cittadine, dove ancora è possibile respirare un’atmosfera a misura d’uomo. Realtà urbane in cui i “fatti reali” vanno a “superare la fantasia” senza azioni di disturbo che pervengono dal caos delle grandi città. 

Giuseppe Nativo

 

Profilo biografico

Salvatore Cosentino è nato a Mirabella Imbaccari, in territorio etneo, dove vive. Fin dal 1956 si occupa di storia della Sicilia, di sociologia, di narrativa e di teatro, pubblicando oltre trentacinque libri. Ha diretto l’Istituto di Sociologia “Luigi Sturzo” di Caltagirone, dove ha istituito la prima cattedra in Sicilia di Scienze delle relazioni pubbliche a indirizzo pragmatista. Ha collaborato con la Rai e con vari quotidiani tra cui “Il Giornale”, il “Corriere della Sera”, “La Sicilia”.

Ha tenuto seminari di studio e di ricerca in diverse università italiane e straniere. Ha tenuto, altresì, seminari di Sociologia dell’emigrazione presso l’Istituto di Antropologia culturale dell’Università “Goethe” di Francoforte sul Meno.

Riconoscimenti per la scrittrice Marinella Tumino 

Ancora apprezzamenti per Marinella Tumino, scrittrice iblea e prof molto amata dai suoi studenti in quanto parla e sta insieme a loro come se fosse la loro mamma. Il suo compito, oltre che formativo, è anche quello di guidare i suoi ragazzi al fine di creare tutti i presupposti perché essi possano diventare adulti consapevoli, responsabili e attivi nella società civile.

Oltre ai suoi studenti Marinella Tumino parla anche ai suoi lettori e lo fa attraverso i suoi volumi che in questi anni ha dato alle stampe. La sua recente fatica letteraria, “L’Urlo del Danubio – Viaggio dell’anima sui binari della memoria storica” (Operaincerta Editore, Ragusa, 2018, pp. 128), attraverso la quale la scrittrice ragusana ripercorre narrativamente il dramma dalla Shoah con un viaggio immaginario in alcuni dei luoghi simbolo in cui si è consumata la terribile tragedia del nazismo, in pochi mesi ha riscosso vasti consensi anche in ambito nazionale.

Nei giorni scorsi le sono pervenuti non pochi attestati volti a riconoscere non solo il valore letterario del volume ma anche la carica umana ed emotiva che emerge dirompente dal testo narrativo. Il primo riconoscimento è arrivato da Papa Francesco che - per il tramite la Segreteria di Stato - ha fatto pervenire “espressioni di affetto e spirituale vicinanza” formulando gratitudine per il lavoro svolto dalla Tumino.

Anche il Presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella, ha espresso riconoscenza all’autrice per la sua opera per la sua “passione e impegno”.

Infine, è di questi giorni la gratitudine formulata dalla senatrice a vita Liliana Segre, deportata nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau e sopravvissuta agli indicibili orrori dello sterminio ebreo. Così scrive: “Gentile Marinella, le sono grata per il libro che ha voluto gentilmente donarmi. Lo leggerò senz’altro nel poco tempo libero che ultimamente mi trovo a gestire. Ammiro il suo impegno nel trattare con professionalità e sensibilità il triste tema della Shoah. Anche a nome di coloro che non sono tornati le esprimo la mia più profonda stima e riconoscenza. Liliana”. 

Redazione

Alla Casa Museo Antonino Uccello di Palazzolo Acreide, giovedì 17 maggio 2018 alle 17 si presenta il libro di Emanuele Lelli, Pastori antichi e moderni - Teocrito e le origini popolari della poesia bucolica, OLMS.

Sarà presente Emanuele Lelli (Università della Sapienza, Roma). Saluti di Salvatore Cangemi (Casa Museo Antonino Uccello). Intervengono: Lorenzo Guzzardi (Direttore del Polo Regionale di Siracusa per i siti culturali), Mario Sarica (Fondatore Museo Cultura e Musica Popolare dei Peloritani), Rosario Acquaviva (Fondatore Museo I luoghi del lavoro contadino).

In conclusione la musica di Drago Perello (flauto doppio di canna).

Un dono dalla Comunità di San Leolino  

 

Ecco un modo intelligente e divertente di portare Pinocchio a scuola! Sì, il burattino tra i ragazzi di carne e ossa non ha subìto l'onta di esservi trascinato per le orecchie lunghe da asino! Era ora. Lo ha fatto, da pari suo, Giovanni Meucci con la commedia musicale in due atti, Pinocchio (Edizioni “Feeria”, 2018), collaborato da Francesco Romano, compositore delle musiche originali.

Personaggio gioiosamente anarcoide e spassosamente protestatario, talora spaesato e ingenuamente indifeso, ancorché spaccone con una sua sapienzialità di comodo, del tipo Cicero pro domo sua, Pinocchio può impersonare tanto le contraddizioni e i colpi di testa dell'adolescente disadattato e/o plagiato, quanto i rimorsi dell'adulto che persiste nei suoi errori, pur riconoscendoli come tali, ma che nel suo intimo aspira a vivere da benpensante. Ed è proprio quando la creatura umana viene finalmente fuori che il nostro personaggio potrà concepire la famosa battuta - insieme presa di distanza e rifiuto di ciò che era stato - : “Com'ero buffo quand'ero burattino!”. Una battuta che sconfessa e condanna la macchia del “peccato d'origine”. Bene, è allora che si potrà dire che la sofferenza è grazia; ed infatti alla grazia segue la catarsi, la redenzione. C'è tutto, infatti, nell'allegoria collodiana che impersona Pinocchio, ed è questo Pinocchio: una creatura prima e dopo la grazia! Non è infatti difficile individuare e mettere in luce tratti esistenziali che lascino intravvedere un sofferto percorso di umanizzazione e perfino, se si vuole, metafisico (la fatina: il bene contro il male!), a dispetto di atteggiamenti scanzonati e burloni, che pure sono la perla del romanzo collodiano, mettendo in risalto la ribellione, come rifiuto interiore, verso la propria condizione di persona “cosizzata”, che per grazia diviene creatura umana, finalmente libera e liberata dalla scorza ruvida della “pinocchite” che ci imprigiona con l'arma della seduzione e lascia spazio a un maldestro uso ludico del libero arbitrio che detesta i “grilli parlanti,”: viene meno, insomma, la facoltà di autodeterminazione di fronte alle lusinghe tentatrici del Paese dei Balocchi. C'è sempre un Lucignolo che ci mette alla prova. E ciò che duole è che anche oggi i ragazzi sognano un paese dei balocchi per il loro chiasso quotidiano e balordo “dalla mattina alla sera!” o fino all'alba come vuole lo sballo delle nuove generazioni che bruciano la loro vita nelle discoteche.

Mi pare che questo burattino di Giovanni Meucci, così ben centrato dalla penna critica di Carmelo Mezzasalma nel saggio Musica per Pinocchio, apra alla riflessione sull'attualità e sul destino futuro della “pinocchite”, che ammorba (la cronaca ce ne dà atto, e la Scuola deve avere più polso!) tanti giovani di oggi ai quali, forse, sarà negato il privilegio di potere esclamare con compiaciuta convinzione: “Com'ero buffo quand'ero burattino!”.

Non c'era soluzione più idonea di questa per farci riflettere sull'importanza pedagogico-didattica di innovare la Scuola attraverso la scrittura creativa, che apre ai ragazzi nuove e più efficaci strade di apprendimento e di riflessione, reinventando situazioni narrative attraverso la drammatizzazione di brani della grande letteratura otto/novecentesca. 

Giovanni Occhipinti

Toccare i punti più reconditi e sensibili “della nostra interiorità”, magari seguendo un percorso di apprendimento attraverso simboli e simbologie – stratificati nel tempo e ripescati dalle pieghe della conoscenza - per ritrovare una dimensione che da quella umana possa farci traghettare in quella dell’inesplicabile, sorta di zona franca il cui sguardo va oltre l’immediatamente verificabile, è certamente un viaggio arduo e periglioso. Una sorta di viaggio esoterico fatto attraverso le pagine della vita che si incuneano nella Storia dell’Uomo, nella sua conoscenza acquisita

E’ in quest’ottica che s’inquadra il libro di Federico Guastella, “Pagine esoteriche” (Gruppo editoriale Bonanno Srl, Acireale-Roma, 2017, pp. 128), i cui argomenti vanno letti “secondo il filo conduttore di una visione esoterica della vita”. Dunque, un iter esoterico recepito però nell’accezione intesa dalla filosofia antica, ovvero gravido di insegnamenti e dottrine senza alcun carattere segreto ma oggetto di divulgazione, e destinato ai “discepoli”, nella fattispecie ai lettori, e in forma acroamatica di aristotelica memoria. E non poteva essere diversamente visto che l’autore ha percorso un buon tratto della sua vita ad insegnare, cioè trasmettere conoscenza (Scienze umane e Storia) nelle scuole del capoluogo ibleo dove trascorre il suo tempo libero a scrivere racconti e poesie.

Nel susseguirsi delle varie e articolate discettazioni, l’autore – con stile fluido, puntuale e con la corda intellettiva e allenata di chi per anni si è prodigato ad insegnare, nel senso letterale del termine, ovvero “imprimere segni (nella mente)” – fornisce molteplici possibilità “di intravedere quali siano gli apporti simbolici utili a intraprendere” questo viaggio (inteso come viatĭcum). Un itinerarius che possa consentire di “spingerci oltre”, come annota il prefatore Federico Sinopoli. Un andare “oltre”.

Sette le tematiche affrontate che assumono le connotazioni della sacralità del numero che rappresenterebbe il cosmo, la sua perfezione e totalità. Attraverso l’intreccio di simboli e simbologie Federico Guastella ci presenta delle polisemie, “delle indefinizioni in luogo di definizioni”, cercando la coesistenza, in uno stesso σύμβολον (“segno”), di significati diversi. Basti pensare al piano anagogico attraverso cui è affrontato il “viaggio” di Dante che “frequentemente si serve del simbolismo della navigazione o della peregrinazione come opportunità di rivisitazione interiore in cui il riconoscersi” si intreccia con il “conoscere”. Una conoscenza che per Giordano Bruno “si fonda sullo sforzo di vedere l’invisibile”. “Conoscere” significa anche “vedere per immagini”. Da qui la nascita della “poesia visiva”, che possa ampliare la visione della vita, attraverso l’uso simbolico dei Tarocchi che – secondo Jung - contribuiscono “ad aprire le porte interiori” della psiche. Essi rappresentano “immagini psicologiche, simboli con cui si gioca, come l’inconscio sembra giocare con i suoi contenuti”.

In questo itinerario l’azione svolta dall’autore sta anche nella sua attività intellettuale di esploratore, ripercorrendo ciò che ha fatto l’uomo nel procedere, passo dopo passo, nel corso dei secoli, nell’ambizioso fine della ricerca della conoscenza, attraverso “le corde, nascoste ma sensibili, della nostra interiorità sollecitandoci a scoprirne, esotericamente, il segreto che essa racchiude e conserva”.

Giuseppe Nativo

 

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Federico Guastella 

Paternese di nascita, etneo di animo e ibleo di cuore, Guastella raccoglie nel suo Dna la secolare essenza del balcone di Sicilia essendo vissuto, fin dalla tenera età, a Chiaramonte Gulfi (da cui era originario il padre, pronipote dello scrittore Serafino Amabile Guastella).

Un buon tratto della sua vita è percorso ad insegnare Scienze umane e Storia nelle scuole del capoluogo ibleo dove trascorre il suo tempo libero a scrivere poesie, racconti e saggi.

Nel 1998 ha dato alle stampe il racconto lungo “La casa di campagna”; nel 2001 “Una notte d’estate e altri racconti”. Nel 2009 ha pubblicato il volume di poesia “Nel tronco incavato”. Sono del 2012 la raccolta di poesie “Geroglifico”, nonché il racconto (in collaborazione), “Colapesce”.

Altre raccolte poetiche: “Nuvole” (2013); “Tu, mio giorno e mia notte” (2014).

Il volume “Chiaramonte Gulfi – La mia diceria” è apparso nel 2014. E’ del 2015 la silloge “Almanacco”. Nello stesso anno è apparso il saggio “Andrea Camilleri, guida alla lettura”. La silloge poetica “Anima mia” è del 2016.

La casa editrice Bonanno gli ha pubblicato, nel mese di maggio 2016, il volume “Fra terra e cielo – Miscellanea di saggi brevi con Gesualdo Bufalino”. E’ del 2017 la stampa della raccolta poetica “Segni” (Urso editore, Avola). Nello stesso anno ha pubblicato i saggi: “Serafino Amabile Guastella – La vita e le opere”; “Il mito e il velo”, “Pagine esoteriche” (Bonanno editore).

 

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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