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Ragusa, 2 settembre 2020 — Un mio amico, anziano medico di sterminata cultura scientifica ed umanistica, mi ha raccontato un fattarello che mi piace condividere coi lettori di Ondaiblea. E lo faccio per il puro piacere della risata. Anche meno: del sorriso. Nulla di ideologico, di didattico, di educativo. Mettiamola così: un aneddoto che potrebbe essere utile in questi tempi alquanto grigi.

Il mio amico dovette andare in una casa per visitare una sua anziana paziente che curava da decenni. Durante la visita la signora era assistita da una sua coetanea, una ottantenne. La somiglianza tra le due era evidente e, durante la visita, venne fuori che erano sorelle. Una vedova e l’altra mai sposata.

Il mio amico conosceva bene la sua paziente, ma non aveva mai visto l’altra, la sorella. Forse è in cura presso un collega – pensò – oppure non ha mai avuto bisogno di un medico. Durante la visita, tra la pillola per la pressione e quella per la osteoporosi, si avviò una conversazione, sul più e il meno. Fin quando il mio amico riuscì a convogliare l’interlocuzione verso la sorella della sua paziente. Intanto chiese se vivessero insieme e come stesse in salute (i medici fanno sempre questa domanda, e quando la fanno ti scrutano quasi fosse una TAC). Poi si passò a discutere della famiglia, dei figli, dei nipotini. Durante la conversazione la paziente del mio amico, di nome Gina, chiamava sua sorella con un nome strano: Finimula.

Per quanto si sforzasse di capire da quale nome fosse tratto quel simpatico diminutivo, il mio medico non riusciva. Mai sentito un vezzeggiativo carino ma sconosciuto come questo: Finimula.

Poco prima di congedarsi, l’uomo di scienza provò a forzare. E chiese: «signora, ma il suo diminutivo, da quale nome deriva?»

La risposta fu più incredibile di tutte le ipotesi che il mio amico aveva formulato nel frattempo. «Io mi chiamo Finimula. È proprio un nome, non diminutivo, non vezzeggiativo. Guardi la carta d’identità…»

E quel pezzo di cartoncino marrone, antichissimo e forse anche scaduto, ma tenuto con cura dentro la borsetta, non mentiva: accanto ad un cognome tipicamente ragusano era ribadito il nome. Finimula.

Ovvia, a quel punto, la domanda del medico. Ma che nome è? Io non l’ho mai sentito. «E certo – replicò la signora – è un nome inventato da mio padre. E le racconto il perché».

La vicenda, vi anticipo, ha dell’incredibile. Il padre, massaro ragusano nato alla fine dell’800, aveva una bella azienda agricola. Desideroso più d’ogni altra cosa di avere un figlio maschio e – volendolo u Signuruzzu – più figli maschi. Qualche femminuccia sarebbe stata gradita: aiutare la mamma in casa e poi trovare un bravo ragazzo, possibilmente massaro. La moglie, fianchi larghi e seno abbondante, era fatta per partorire. E così fece: otto volte. Otto femmine. Giovanna, Salvatrice, Carmela, Vincenza, Carolina, Concettina, Angioletta e, appunto Finimula. Esasperato, il buon uomo si rivolse alla moglie: «basta femmine. Finiemula». E così riferì chiaramente all’impiegato della anagrafe comunale. Questi si era opposto, in un primo momento. Ma gli occhi del massaro ragusano lo riportarono subito a più miti consigli.

 

Saro Distefano

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry