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  • Argomento: Accademia della Crusca

Arancini siciliani: Vanno declinati al maschile o al femminile? Dirime la questione la scheda di Stefania Iannizzotto per l’Accademia della Crusca 

 

Una volta si argomentava sul “sesso” degli angeli. Oggi si discute di quello delle/gli “arancin*”. In buona sostanza – al di là della bontà culinaria che ci offrono i cuochi della nostra assolata Trinacria – tale termine come si deve declinare? Al maschile (quindi “arancino”) o al femminile (ovvero “arancina”)?

Tempo fa la questione era arrivata persino all’Accademia della Crusca, uno dei principali punti di riferimento per le ricerche sulla lingua italiana. Per dirimere la controversia, rinfocolata anche da un famoso libro di Andrea Camilleri ovvero “Gli arancini di Montalbano”, l’istituzione, che raccoglie studiosi ed esperti di linguistica e filologia della lingua italiana, si è espressa osservando che entrambe le forme (tanto quella al maschile, quanto al femminile) possono essere utilizzate. La differenza, se proprio bisogna essere precisi, sta nel fatto che il famoso e gustoso timballo di riso cambia forma, ovvero: rotonda nella parte occidentale della Sicilia e rotondo o, molto spesso, a punta nella parte orientale (forse perché evoca la figura del vulcano Etna).

Al di là dell’approfondimento di natura linguistica, la scheda dell’Accademia della Crusca – a firma di Stefania Iannizzotto, chiaramontana di nascita (cfr. l’articolo di Laura Curella per il quotidiano “La Sicilia” del 5 febbraio 2016, p. 27) – riporta anche alcune notizie circa la nascita di questa specialità tutta siciliana, le cui origini sembrerebbero risalire al periodo della dominazione araba (dal IX all’XI secolo). “Gli arabi – si legge nella scheda – avevano l’abitudine di appallottolare un po’ di riso allo zafferano nel palmo della mano, per poi condirlo con la carne di agnello prima di mangiarlo; da qui la denominazione metaforica: una pallina di riso con la forma di una piccola arancia (nāranj). Come si legge nel Liber de ferculis di Giambonino da Cremona (curato da Anna Martellotti, 2001) – tutte le polpette tondeggianti nel mondo arabo prendevano il nome dalla frutta a cui potevano essere assimilate per forma e dimensioni (arance ma anche albicocche, datteri, nocciole)”. E naturalmente il paragone con le arance si sposa bene con la Sicilia dato che l’isola ne è sempre stata ricca. La studiosa scrive però di non aver trovato, tuttavia, tracce di questa preparazione nella letteratura e nelle antiche cronache almeno fino alla seconda metà del XIX secolo: un periodo, dunque, molto più recente di quanto si potrebbe pensare.

Il primo vocabolario siciliano che registra la forma “arancinu” è il Dizionario siciliano-italiano di Giuseppe Biundi (1857) che lo descrive come “una vivanda dolce di riso fatta alla forma della melarancia”: dolce, non salata. Ma spiega Iannizzotto che, comunque, i passaggi dolce/salato non sono infrequenti nelle varie fasi della gastronomia, tanto che la pizza alla napoletana è ancora nella Scienza in cucina di Pellegrino Artusi (ediz. 1911) un dolce fatto di pastafrolla e crema.

Nel Vocabolario siciliano-italiano del Traina (1868) dalla voce “arancinu” si rinvia a “crucchè”, che sono “specie di polpettine gentili fatte o di riso o di patate o altro”. In questi dizionari non risultano mai menzionati né la carne né il pomodoro. Non sappiamo quando questi due ingredienti siano entrati nella ricetta. “Alla luce di questi fatti – continua la scheda – il legame tra il supplì siciliano e la tradizione araba non sembra più così certo, mentre si potrebbe pensare che si tratti di un piatto nato nella seconda metà del XIX secolo come dolce di riso, ma che sia stato trasformato quasi subito in una specialità salata”.

Inoltre il nome di questa preparazione, aggiunge la Crusca, “secondo l’ipotesi suggerita dal dialettologo Salvatore Trovato, potrebbe derivare non solo dalla forma dell’arancia, ma anche dal suo colore: in siciliano infatti le parole che indicano nomi di colori si formano da una base nominale più il suffisso -inu, quindi arancinu ‘di colore arancio’, come curaḍḍinu ‘del colore del corallo’”.

È di qualche settimana la notizia che anche la Treccani stia studiando per il suo vocabolario una definizione che si rivela di ardua soluzione. Ancora una volta, in singolar tenzone di natura squisitamente culinaria, da un lato i catanesi con il loro “arancinu”, dall’altra i palermitani con la loro “arancina”.

 

La diatriba è ancora in corso? Si arriverà ad una soluzione definitiva?

Lo abbiamo chiesto a Stefania Iannizzotto che si occupa di consulenza linguistica presso l’Accademia della Crusca. “Direi proprio di no: le due forme continueranno a convivere per sempre e ognuno si terrà ben stretta la sua! Ma non è una brutta cosa, anzi: più volte mi è capitato di sottolineare che la varietà e la diversità nella lingua (ma non solo!) rappresentano una ricchezza a cui non si deve rinunciare. In particolare poi la lingua della cucina in Italia è ricchissima di geosinonimi, cioè di quelle parole diverse che si riferiscono però alla stessa cosa, basta pensare per esempio a tutti i nomi con cui si indicano i dolci di Carnevale: chiacchiere, cenci, frappe, bugie, cròstoli, frappe, gale, intrigoni, sfrappole, zeppole… continuo? Queste parole diverse proprie delle diverse parti del nostro Paese rappresentano piccole ma preziose identità, costituiscono la tradizione, la memoria, il sentimento di ogni comunità e non vanno osteggiate né bandite in favore di una forma unica, di una sola parola: al contrario vanno preservate e tenute in vita perché parlano di noi, delle nostre origini, delle nostre radici linguistiche. Per cui l’importante è rendersi conto che esiste un italiano standard codificato e descritto dalle grammatiche e dai dizionari che descrivono le regole della lingua comune e le parole comuni a tutto il Paese, e che esistono anche i dialetti e gli italiani regionali che hanno le proprie regole e il proprio lessico che funzionano benissimo in un territorio più limitato, magari a più regioni, spesso a una sola ma qualche volta anche a un paesino! Teniamoci dunque gli arancini catanesi, messinesi e agrigentini e anche le arancine palermitane, ragusane e siracusane e quando possiamo (io posso farlo solo quando torno a casa, ahimè!) mangiamo tutto con gusto, felici e contenti!” 

Giuseppe Nativo

 

 

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry

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