«Chi ama la luna non si accontenta di contemplarla come un’immagine convenzionale,
vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna,
vuole che la luna dica di più»
Italo Calvino
La Luna è declinata al femminile*, come l’acqua. Elementi che accompagnano la vita dell’uomo e della donna. Facendo ricorso esplicito all’elemento liquido (“il riflusso delle acque” condizionato dalla luna, ciclico quanto il percorso del satellite e le fasi dell’organismo femminile), o evocandolo indirettamente in diverse immagini che, se dichiarate relative al corpo celeste e alla donna, implicitamente suggeriscono anche un riferimento all’acqua, Joyce riafferma l’indissolubile nodo che stringe in un unico simbolo l’elemento femminile, “notturno, patriarcale, caotico e generatore”, e le immagini relative all’acqua. Il valore archetipo di tale nesso è sottolineato da Eliade, il quale afferma che “fin dalla preistoria, il complesso Acqua-Luna-Donna era percepito come il circuito antropocosmico della fecondità” (cfr. Trattato di storia delle religioni, 1984, p.194).
Si tratta, dunque, di un universo dalle mille sfaccettature dove poesia e letteratura, ma anche pensieri filosofici, si sono da sempre intrecciati e i cui confini sono talora lambiti da filastrocche dialettali (“Luna lunedda / Fammi na cudduredda, / Fammilla bedda ranni / Ci la portu a San Giuvanni…”) di atavica memoria.
Anche il Cinema, la settima arte, è stato avviluppato nel fascino della Luna. A tale riguardo, qui di seguito, sottoponiamo all’attenzione dei nostri lettori le articolate ed interessanti riflessioni sul tema che ci ha proposto Danilo Amione (docente Storia del cinema all’Accademia Belle Arti di Ragusa, critico cinematografico).
Giuseppe Nativo
Nota: * non in tutte le lingue, ovviamente, la parola è femminile: ad es. in tedesco der Mond è maschile, come anche in arabo, al-qamar, e, di converso, nelle rispettive lingue il Sole è femminile: die Sonne e ash-Shams. In inglese i due termini corrispondenti (Moon e Sun) sono ovviamente neutri, secondo i canoni della lingua... Il concetto di Luna, però, è "femminile" in poesia, quasi universalmente, a partire dalla Selênē (o Selanna) di Saffo. [ndr, sm]
Il Novecento delle immagini si apre (1902) con “Il viaggio nella luna”, di Georges Mèliés, punto di partenza del cinema di finzione, e si chiude (1990) con “La voce della luna”, di Federico Fellini, punto di arrivo del cinema in quanto tale. Come dire, la chiusura del cerchio. Un film, quello del regista francese, che lascia intuire le infinite potenzialità formali e sostanziali della settima arte. Un film, quello dell’artista riminese, che dichiara l’impotenza del cinema dinanzi al barbaro dilagare delle immagini televisive. In mezzo, la realtà. Nella fattispecie, l’approdo dell’uomo sulla luna. Per molti, un momento importante della storia dell’umanità. Certamente, un punto di snodo nella comunicazione di massa per immagini. Il primo evento collettivo planetario, il primo esempio di globalizzazione culturale. Il tutto veicolato dalla televisione, qui al top del motivo stesso per cui era nata, la visione a distanza. Un episodio che segna il punto più alto e insieme finale del romanticismo e della “letterarietà” (da “L’Orlando furioso”, a “Le avventure del Barone di Munchausen”). Il sogno realizzato e, dunque, la morte del sogno stesso. Mèliés ci aveva avvertiti, inventandosi il cinema, che il sogno si sarebbe infranto possedendolo. Fellini lo ha sottolineato, facendo letteralmente incatenare la luna dalla televisione, sempre alla ricerca di scoop pur di spostare più in là l’asticella dell’audience. Il cinema muore e lo dice pure, lasciando la scena al circo televisivo, capace di farci vivere minuti di assurda euforia e anni di rimpianti e vuoti esistenziali. La luna, dunque, come paradigma della nostra realtà perennemente mutante. Pronta ad essere messa in scena ovunque.
Fritz Lang, nella sua Germania weimariana, nel 1929 (attenzione all’anno di Wall Street!) ne immagina, con “Una donna sulla luna”, la conquista come disastrosa, perché pericolosa variazione della corruttibile corsa all’oro di chapliniana memoria. La Hollywood propagandista, in piena guerra fredda, anticipa la Storia, per la prima volta, ne “I conquistatori della luna”, 1950, di Irving Pichel, in cui la conquista scientifica è anche e soprattutto vittoria politica. Parallelismo che il cinema statunitense, seppure sotto diverse forme, non abbandonerà più, vedi il recente “First man - Il primo uomo”, di Damian Chazelle, 2018. Il beatlesiano Richard Lester, dalla ironica e ribelle Inghilterra degli anni ‘60, si fa beffa delle superpotenze raccontando, in “Mani sulla luna”, del ’62, di uno staterello invisibile sulla cartina geografica, capace di mettere piede per primo sul satellite conteso, grazie ad un razzo alimentato da un vino particolarmente fermentato.
La New Hollywood degli infiammati anni ‘70, vanamente contestatrice e dissacratrice, insidia la verità con “Capricorn one”, 1978, nel quale il regista Peter Hyams riprende la oramai leggendaria teoria del complotto lunare della Nasa ed ipotizza che lo sbarco (virato su Marte, per non esplicitare troppo…) sia stato solo una messinscena cineteatrale, per le finalità politiche di cui sopra. Prima e dopo la conquista, l’americano Stanley Kubrick, con “2001 Odissea nello spazio”, 1968, e il russo Andrej Tarkovskij, con “Solaris”, 1972, rivaleggiano solo in genialità e, prendendo spunto dalla cronaca spaziale di quegli anni, ci regalano due opere d’arte immortali, capaci di andare oltre ogni limite nel raccontarci il destino dell’uomo, fissato in immagini più forti di qualsiasi teoria filosofica.
A questo punto la luna sarà pronta ad accompagnare altri cineasti nelle loro narrazioni, riacquisendo quel ruolo poetico che la Scienza e la Storia avevano tentato di sottrargli. Bernardo Bertolucci ne “La luna”, 1979, ed Eric Rohmer ne “Le notti della luna piena”, 1984, come il Bunuel di “Un chien andalou”, 1929, inquadrano la luna come per inquadrare un mistero che tale vuole restare. E solo facendo un po’ di silenzio, e con la luna che ci guarda, mai più prigioniera, forse, dice Fellini nella sua opera di congedo, qualcosa potremmo capire…
Danilo Amione