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Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989

 

Sta male Sciascia per una frattura alla vertebra in seguito ad una caduta nel maggio del 1980. Anche i guasti provocati dal fumo incidono negativamente suo malessere. Nell’estate del 1988 si reca nel Friuli, a Percoto, per un periodo di vacanza con la moglie, ospite dei Nonnino, produttori di grappa. Qui scrive Il cavaliere e la morte. Trascorre la villeggiatura estiva nella sua casa di campagna in contrada Noce di Racalmuto, dove vanno a trovarlo gli amici, tra cui Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo. Si muove a fatica e si appoggia al bastone.

I motivi di salute gli impediscono di portare avanti un lavoro sulla vita di Telesio Interlandi[1], di cui aveva raccolto una copiosa documentazione[2]. Nel 1989 è a Milano per sottoporsi a complesse e lunghe analisi; la diagnosi definitiva è: mieloma micromolecolare, detto delle «catene leggere», rara forma tumorale al midollo osseo. Si sottopone a chemioterapia e successivamente alla dialisi, tre volte la settimana. A Palermo, dove trascorre l’ultimo periodo della vita, non esce più di casa. Il dolore è attutito dalla morfina. Ai familiari consegna le ultime volontà e scrive l’epitaffio tombale, una frase dello scrittore Villiers de l’Isle-Adam: «Ce ne ricorderemo di questo pianeta».

Muore a Palermo alle 7 del mattino del 20 novembre, qualche settimana dopo dell’abbattimento del muro di Berlino. I funerali sono celebrati a Racalmuto nel santuario della Madonna del Monte, dal vescovo di Agrigento. È una mattina nuvolosa. La folla dei paesani, e le autorità, e gli uomini di cultura accorsi da ogni parte d’Italia, dentro e fuori la chiesa, partecipano commossi alle esequie.

 

La presenza costante di Leonardo Sciascia nel sociale lo ha posto al centro dell’attenzione pubblica: oltre ai suoi libri, gli interventi sui giornali e sui settimanali d’attualità e di politica, le interviste alla radio e in televisione, l’attività parlamentare e di critica d’arte, gli hanno assicurato un posto autorevole. Con il coraggio di cercare la verità, ha attivato entusiasmi e dissensi; le sue idee di uomo libero, sottratto a ogni forma di condizionamento, hanno incoraggiato dibattiti e discussioni, mentre la sua ricerca è stata animata dalla contraddizione come egli stesso ha dichiarato nel corso dell’intervista con Marcelle Padovani: «Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: “Ha contraddetto e si è contraddetto”, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano». Malgrado il fondo di scetticismo, ha fermamente creduto nel rapporto della letteratura con la verità: le analisi condotte hanno avuto la forza di orientare alla costruzione della mente critica e le sue opere, appunto perché la riflettono, hanno facilitato la conoscenza della realtà. Rimanendo fedele all’uso dell’indagine razionale, la contraddizione di cui egli ha parlato va connessa col difficile tentativo di ricercare il vero nella complessità di una realtà attraversata da forti tensioni. Da qui le polemiche e le invettive sui problemi più assillanti del Paese: dalla mafia alla giustizia. Prendendo le distanze da ogni schieramento, dai dogmi e dalle ipocrisie, ha scelto la contraddizione ritenuta la via migliore da cui muovere per avviare una ricerca senza preconcetti. Anche se la verità sfugge di mano e resta imprendibile, per lui va cercata nell’ottica di molteplici punti di vista con quella flessibilità mentale che potrebbe essere sacrificata dall’appartenenza ideologica. Ecco, dunque, il valore ermeneutico della contraddizione: guardare al vero come sforzo continuo che fa accogliere sia la tesi che l’antitesi di un particolare problema per riflettervi in profondità e raccontarlo nel suo modo di saggista.

Contraddizione dunque come indagine documentata che guarda alle cose senza rigidità, utilizzando con ogni rigore possibile il dubbio per smascherare abusi, ingiustizie, imposture. La sua opera complessiva, che rivela procedimenti narrativi affascinanti e coinvolgenti, è un antidoto alle logiche mistificatrici del Potere: alla menzogna che fa della ragione uno scempio. Moralista Sciascia che, ripensando la vita, ha scritto di cose concrete, rifiutando la forza della violenza quale senso ultimo del mondo, nonché ogni sorta di fascismo e stalinismo quale cifra fondamentale dell’essere. Saggista e narratore di gialli e di racconti storici, si è schierato contro l’intolleranza, raccontando il trasformismo politico: gli arrivismi degli intriganti simbolizzati dalla figura del barone Graziano nel Quarantotto. Si potrebbe anche ricordare il nonno di Candido che, generale ed ex gerarca fascista, si fa eleggere deputato nelle liste della Democrazia Cristiana. La guerra di Spagna, voluta da Franco e sostenuta da Mussolini, è l’imbroglio che Sciascia scopre fino ad affermare poi che l’Italia è il paese dei misteri. Polemista, ha sempre detto la sua con fermezza di principi senza mai rinunciare ad opporsi al “falso” per tutelare la dignità dell’essere umano. Lo intrigavano e lo inquietavano i processi, osserva Gianfranco Dioguardi nel suo intervento La grazia del silenzio in Nuove effemeridi (Anno II, n. 8, 1989/1, Palermo). Del resto, Sciascia nel 1912 + 1 aveva scritto: “Se si togliessero le illazioni dei testi e il sentito dire, i processi che si fanno oggi in Italia crollerebbero come castelli di carta”. Solitario, drammatico in Porte aperte, il giudice non applica la legge sulla pena di morte ripristinata dal fascismo. E qui il Nostro scrittore fa tesoro dell’illuminismo e del Manzoni, rivisitato nello splendido saggio Storia della colonna infame.  Doppiezze, ambiguità, interessi affaristici vengono denunciati in Todo modo. Si potrebbe anche citare i Pugnalatori, opera in cui prevalgono le deviazioni fino all’insabbiamento delle indagini. Respinge Sciascia l’idea che la ragion di Stato possa prevalere sull’uomo e avanza la convinzione della stretta alleanza di politica ed etica che ogni intellettuale dovrebbe sostenere: “Uno scrittore”, ha scritto in Nero su nero, “dovrebbe sempre poter dire che la politica di cui si occupa è etica. Sarebbe bello che potessero dirlo tutti. Ma che almeno lo dicano gli scrittori”. Il suo rapporto con la Sicilia è stato problematico. La vita del feudo e delle zolfare gli ha inoculato il senso dell’offesa dovuto alla prepotenza di nobili e mafiosi. Da qui la contestazione del “Potere”, manifestata in tutti i suoi libri, sin dalle Favole della dittatura, con uno stile asciutto, essenziale e privo di barocchismi linguistici, con una tecnica di scrittura condensata, nuova, originalmente controllata. Sciascia aveva la consapevolezza che i sogni fatti in Sicilia sono di breve durata e che la Palma va a nord: così si intitola il libro che raccoglie articoli e interventi dal 1977 al 1980. Forse il meno conosciuto, e certamente non meno importante degli altri suoi testi che fanno capire la vita pubblica italiana. La “palma” è la metafora della malavita: come la pianta risale a latitudini inconsuete, allo stesso modo si diffonde ovunque un modo di essere negativo coi suoi intrecci di mafia e politica.

L’impegno civile non è in lui disgiunto dall’autonomia di pensiero: binomio inscindibile che lo porta a rifiutare ogni compromesso e ad essere intransigente nei confronti delle forme insidiose del potere che si affermavano negli anni ‘70 per espandersi negli anni ‘80. Se il Contesto è la rappresentazione del totale crollo dell’opposizione politica alleata del potere, ovunque nel mondo, Todo modo denuncia il mascheramento: dietro l’apparenza degli esercizi spirituali che fanno da copertura, c’è l’intrallazzo a fare da collante, ad accomunare uomini di chiesa, industriali, politici di prestigio di tutta l’Italia. L’ottimismo crolla definitivamente nel romanzo Il Consiglio d’Egitto, ambientato a Palermo nel periodo delle riforme settecentesche e ispirato da un antico documento che descriveva il massacro dei presunti giacobini siciliani. Le idee illuministiche si incarnano nella realtà abitata dai miserabili “che gridano fame, le scarne mani tese ad implorare la carità” e Di Blasi entra in azione, rivendicando contro gli abusi “il diritto del contadino ad essere un uomo”. Con dignità egli è però un vinto, uno che perde la sua partita. Anche il Vice del romanzo Il cavaliere e la morte, pur essendo affetto da un male incurabile, fino all’ultimo non si arrende e manda avanti la sua indagine con piena convinzione. Anch’egli viene fatto fuori. Malgrado la ragione venga ingoiata dai buchi neri del male, a vincere è però la scrittura-verità sostenuta. Giuseppe Bonura, ricordando Sciascia come “sagace narratore” e “impareggiabile saggista”, nonché come intellettuale “a servizio permanente”, così conclude in Nuove effemeridi il suo intervento intitolato Un ottimismo biologico (ripreso da Avvenire, 21.11.89): «E qui ritorniamo al tema del pessimismo di questo scrittore. Non era del tutto pessimismo, basterà pensare al fatto che la sua prosa ha una leggerezza e una lievità che incantano. Ebbene, proprio nella prosa risalta l’ottimismo biologico di Sciascia, la sua strenua volontà di non rinunciare mai alla lotta per il trionfo di una vera giustizia umana. Ma l’ottimismo sciasciano risalta anche per un altro aspetto. Nella sua prosa si avverte un grande amore dei classici, di Pirandello in primo luogo, e poi di Manzoni. Non è questo il luogo di spiegare la bellezza della prosa di Sciascia, la luminosità del suo stile. Forse per onorare la sua grandezza, basterà aprire il suo ultimo libro, Una storia semplice…»

 

Federico Guastella 

 

Note:

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[1] Telesio Interlandi (Chiaramonte Gulfi 1894 - Roma 1965): del padre Vanni (Giovanni), maestro elementare, rimangono alcuni scritti pedagogici ed un breve saggio su Serafino Amabile Guastella, mentre di lui è noto l’inserimento nell’apparato dello Stato fascista che gli consentì di essere una delle espressioni più autorevoli attraverso la direzione del giornale “Il Tevere” (1924), ottenuta dopo il delitto Matteotti e successivamente a diverse esperienze giornalistiche a Roma e a Firenze. In quel giornale scrissero tanti famosi scrittori. Per citarne alcuni: Luigi Pirandello, Emilio Cecchi, Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati, Elio Vittoriani, Corrado Alvaro, Ardengo Soffici, Alberto Moravia. Dell’Interlandi ricordiamo: il settimanale “Quadrivio” (1933); "Pane bigio" sottotitolato "Scritti politici", edito a Bologna nel 1927 con la prefazione del poeta Vincenzo Cardarelli; nel 1938 diresse il quindicinale “In difesa della razza”; il primo numero apparve il 5 agosto del 1938 recante in copertina due versi di Dante tratti dalla terza cantica della Commedia (Il “Corriere della sera” dell’11 novembre del 1938 – edizione del pomeriggio – informava, in prima pagina, che il Consiglio dei Ministri aveva approvato le leggi per la difesa della razza), e nel medesimo anno pubblicò un insieme di scritti nel libro "Contra Judeos" che, per Guido Piovene, ebbe la virtù principale “di aver ridotta all’osso la questione ebraica” (“Il Corriere della sera”, 15 dicembre 1938). Egli appare come l’intellettuale smaliziato che, distaccandosi dal suo microcosmo per avventure più gratificanti e cedendo alle lusinghe del potere, si distinse per aver sostenuto le tesi antisemitiche dell’epoca, nonché le leggi razziali (1938), il cui spaventoso esito si ebbe poi ad Auschwitz, a Dachau e in altri numerosi lager nazisti.

[2] Prima che morisse diede le carte e gli appunti al giudice Vitale che ne fece il racconto In questa notte del tempo (Sellerio, Palermo, 1999). Anche Giampiero Mughini sul personaggio scrisse A via della Mercede c’era un razzista (Rizzoli, Milano, 1991).

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

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