- Argomento: Storia
Vincenzo Consolo, che alla rinascita del Val di Noto ha dedicato l’attenzione di scrittore, con rapide pennellate a fosche tinte ha creato l’atmosfera degli attimi che si vissero il 9 e l’11 gennaio 1693 sulla costa jonica della Sicilia, tra Pachino e Peloro. E dallo spaventoso evento sismico bisognerebbe partire per inquadrare la storia sociale, urbanistica e architettonica della cuspide meridionale dell’Isola.
Suggestiona di fotogramma in fotogramma la surreale e colta descrizione: “Un cielo livido, piane colli monti privi d’ombre, sfumature, d’una insopportabile evidenza; un tempo immobile, sospeso; e un silenzio attonito, rotto da ulular di cani, strider d’uccelli, nitrire di cavalli: un mondo che sembra attendere da un momento all’altro la sua fine; l’uomo, di consegnarsi ineluttabilmente all’ultima certezza. Il cui panico Michelangelo ha rappresentato nel “Giudizio” (in basso, sul lato dei dannati, un occhio reso cieco da una mano, l’altro, sbarrato, con dentro lo sgomento” (Vincenzo Consolo, Di qua dal faro, Mondadori, p. 92). Il letterato cede poi la parola allo storico e anche ad alcuni poeti popolari, anonimi che vollero dare testimonianza del disastro.
Così Liliane Dufour in “Storia d’Italia” (Torino 1985): “Nei giorni 9 e 11 gennaio 1693, due scosse sismiche di gran violenza distruggono la maggior parte delle città e dei borghi della Sicilia sudorientale, mietendo ufficialmente 53.757 vittime (...). In totale 58 sono gli insediamenti toccati dalla catastrofe, di cui venti interamente distrutti; questo è quello che scaturisce dal rapporto ufficiale inviato al viceré e che ci fa conoscere, con relativa precisione, il grado di distruzioni città per città”. Tre le scosse: dalla più lieve alle ore 4 del mattino del 9 gennaio a quelle dell’11gennaio: alle ore 17 una replica leggera e appena toccate le ore ventuno quella devastante. Raffaele Solarino, storico della Contea di Modica, nel secondo volume della prestigiosa opera “La Contea di Modica - Ricerche storiche”, riporta i dati riguardanti le vittime, forniti al Viceré dal Conte Gaspare:
Modica 3400
Ragusa 5000
Scicli 2000
Giarratana 541
Spaccaforno 400
Chiaramonte 303
Monterosso 200
Vittoria 200
Biscari 200
Comiso 90
Santa Croce ignorato il numero
Degna di nota l’osservazione di Augusto Placanica: “Un grande terremoto rappresenta la fine del mondo: esso non solo uccide l’esistenza biologica, ma rompe i cardini della natura, spezza l’asse della terra, risospinge la società e la storia all’indietro” (A. Placanica, Il filosofo e la catastrofe, Torino 1985). Le notizie su Chiaramonte Gulfi possono essere agevolmente attinte dagli storici locali. Al terremoto il cappuccino Padre Samuele Nicosia, rifacendosi ai dati forniti dal Mongitore, dedica il capitolo decimosettimo del pregevole studio intitolato “Notizie storiche su Chiaramonte Gulfi” (tip. Piccitto&Antoci, Ragusa, 1882). A udire le prime scosse fu l’isola di Malta; subito le scosse si estesero nel Val di Noto, facendo crollare interi paesi, tra cui Chiaramonte: “Clarus mons pene totus eversus”, informa Rocco Pirro. sono Dettagliate le notizie di Padre Samuele: “Vennero interamente distrutte le chiese del SS. Salvatore e del Battista, l’antica fortezza dei Conti di Modica che allora era destinata a carcere, i conventi dei Francescani e dei Cappuccini. Furono danneggiati i due monasteri e le chiese di San Vito, di san Filippo e dell’Annunziata. Crollò pure interamente quella di San Silvestro, ove pregavano e morirono tre sorelle di santa vita insieme ad altra divota gente”. Da qui la speciale devozione popolare alle anime del Purgatorio, dette di San Silvestro, giacché costoro furono sepolti in detta chiesa. Tutto fu raso al suolo o gravemente danneggiato. Nell’architrave d’una casa, nella piazzetta di San Filippo, una scritta recava la seguente notizia: “Una di quelle che fu preservata dal terremoto del 1693”. Lo storico riferisce, poi, un particolare orrido: “Nella famiglia del Barone Guastella si è tramandato che innanzi alla chiesa dell’Annunziata si aprì e si chiuse immantinenti una voragine, e che una donna detta “Mùncia” per ingiuria, vi perdette una gamba, per cui dopo andava limosinando con l’aiuto di una stampella. Chiaramonte, che allora contava 1370 famiglie e 5.000 abitanti, ebbe di morti un “numero sparuto in rapporto ai danni del paese, ma ciò non fa meraviglia, qualora si consideri che, a causa del terremoto avvenuto il giorno 9, molte famiglie cominciarono a fuggirsene in campagna per l’infausto presentimento di ciò che poi realmente successe (…) La maggior parte quindi del popolo si formò delle baracche nel piano di Gulfi, in S. Margherita e in altri siti sino alla Fontanazza, e non mancarono di coloro che abitarono nelle grotte, finché si videro esenti d’ogni pericolo, e riedificarono con non pochi sacrifizi la demolita città”. Da allora ad oggi, ogni anno per ricordare l’infausto avvenimento, i fedeli si recano a Gulfi per invocare la protezione della Madre divina, la cui pregiatissima statua viene esposta alla pubblica venerazione. Anche il Barone Corrado Melfi di San Giovanni nello scritto “Cenni storici sulla città di Chiaramonte Gulfi” (Tip. Destefano, Ragusa, 1912) parla del terribile evento sismico al cap. IV, aggiungendo particolari di un certo interesse, tra cui i versi popolari. Nell’immaginario collettivo, storpiato da una religiosità repressiva, l’evento sismico fu considerato un flagello di cui Domineddio si servì come avvertimento ai peccatori cui sono spalancate le porte dell’inferno, come opera di ravvedimento e di conversione. Per esempio, Buscema Vito in un sonetto in lingua si poneva in sintonia con tutti i verseggiatori che allora si occuparono dell’argomento:
“Certo la terra si risente e scuote
perché dal peccator gli agrava il piede,
e i nostri corpi impaziente chiede
per riempir le sue spelonche vuote”.
La ricostruzione, dettata dall’amore del luogo, rappresentò un momento di energia comunitaria e artistica: alcuni paesi ripresero a vivere nello stesso insediamento di prima (“Chiaramonte e Monterosso cumularono alla rinfusa case e casipole, parte che si spenzolano nell’erta, parte che si annicchiano tra i contorcimenti delle viuzze”); altri cambiarono sito, ritenuto più vantaggioso rispetto al primo. Limpida e piacevole a leggersi la pagina in cui Raffaele Solarino parla delle fazioni: i sangiorgiari che legati ai propri privilegi non vollero abbandonare il sito preesistente dell’antica Ragusa; i sangiovannari, contadini e “burghisi”, che scelsero il luogo del “Patro”, assecondando la tendenza della risalita dal fondovalle, già in atto prima del terremoto; i pochi nobili residenti a Palermo o a Madrid, lungimiranti, indicavano contrada Cutalia che digrada verso il mare: “Ragusa discusse molto se doveva trasportarsi a Cutalia, ove la piana degrada verso la marina: ma i contadini e i borgesi, sostenuti dal barone Giacinto Leggio e dal dr. Ignazio Garofalo, respinsero la proposta come dannosa all’agricoltura, per non essere quel sito equidistante ai vari raggi del territorio. Da ciò malumori e partiti. Molti emigrarono: dei rimasti, alcuni rifabbricarono le loro case nel vecchio sito ( Ragusa Inferiore), adagiandosi alla meglio in un territorio accidentato e sulla spianata del Corso; altri sulla collina vicina il piano del Patro (Ragusa) poterono sviluppare vie larghe e rettilinee”.
Gli appartenenti alla confraternita di San Pietro avrebbero voluto ricostruire Modica sull’altopiano della Michelica degradante verso il mare, ma il Re di Spagna Carlo II, fattosi convincere dai seguaci di San Giorgio, non autorizzò il trasferimento del luogo. Giarratana cambiò completamente sito, sorgendo nel “Poju di li disi (“Collina degli ampelodesmi”): meno salubre rispetto al precedente, ma vi si poterono sviluppare “vie rettilinee e poco acclivi”. Nuovi gli stili architettonici, nuovo il tardo-barocco in Val di Noto grazie anche all’apporto dei gesuiti che ebbero un gusto particolare per l’architettura e l’urbanistica. Il Viceré duca d’Uzeda, il vicario generale duca di Camastra, il principe di Butera, e ingegneri e architetti (Vaccarini, Ittar, Angelo Italia, Vermexio, Palma e Gagliardi), e maestranze locali con superba competenza diedero quasi miracolosamente vita alla rinascita di paesi e città. Dando libero sfogo all’immaginazione, la morte venne mutata nella rinascita; le ferite generarono la bellezza di Afrodite in una luminosa scenografia; il caos divenne sogno che si rivela nelle scalinate e facciate delle chiese, nei palazzi signorili odorosi di giardini. Affidiamo ora la conclusione della rapida sintesi alle belle parole di Consolo: “Il risultato di questa grande ricostruzione del Val di Noto, di città come Catania, Siracusa, Ragusa o Modica, di costruzione ex nihilo di città come Noto, Avola o Grammichele è di grande armonia e bellezza. Di bellezza che non impone, passiva, estatica contemplazione, ma che ispira felicità ed attivismo. Questa bellezza de Le città del mondo che Vittorini ai due viaggiatori, padre e figlio, faceva apparire come luoghi della libertà, dell’ottimismo e del progresso” (Di qua dal faro, op. cit., p. 97).
Federico Guastella