Fonte: ISP, Istituto di Studi Pirandelliani... https://http://www.studiodiluigipirandello.it

Cultura
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  • Argomento: Letteratura

Nel film "Kàos" dei fratelli Taviani (1984), il quarto episodio s’intitola "Epilogo: colloquio con la madre", liberamente tratto dalla novella di Luigi Pirandello “Colloqui coi personaggi – II” (“Giornale di Sicilia, 11-12 settembre 1915)[1].

 

Il noto drammaturgo, poeta e scrittore, dopo anni di lontananza, torna alla casa natale, spinto dal bisogno di integrarsi con il proprio “Sé” attraverso il contatto con gli affetti primari. Dopo un viaggio di due giorni, da Roma arriva alla stazione di Girgenti.

A svegliarlo è la fermata brusca del treno: chiaro il simbolismo dello scuotimento che dal sonno lo immette in visioni alla ricerca dei sentimenti perduti. Viene riconosciuto dal vetturino che con la sua carrozza lo conduce a casa e questi quasi si offende per la mancia ricevuta.  Tardivamente, solo dopo aver varcato il cancello di casa, ne grida il nome, rendendolo felice mentre Saro si allontana. Luigi si aggira per le ampie e silenziose stanze e si abbandona al flusso memoriale, avviando la discesa nella profondità dell’inconscio. L’atmosfera è pressoché surreale: egli apre una finestra e una pianta di “Lumie di Sicilia” mostra i suoi frutti.

Nel salotto rivede la madre, Caterina Ricci Gramitto, che gli parla con pacata affettuosità. Tenero, toccante il colloquio tra l'uomo ormai celebre, ma amareggiato dalle circostanze della vita, e la figura materna che, da poco morta, orienta e consiglia. Pirandello la riporta in vita, dandole voce. Vede il mare, ricorda le vele della sua infanzia e le chiede di raccontargli di un famoso viaggio fatto in barca con le sorelline verso Malta per andare a trovare il nonno esiliato in quell'isola per sfuggire alle persecuzioni borboniche.

La suggestiva scena, introdotta dai fratelli Taviani, originalissima nel suo farsi poesia, è la tappa di quel viaggio nell’ “isola della pomice”. Ritrae la gioia del giuoco malgrado i disagi sofferti: i bambini, fra cui la madre dello scrittore, scivolano lungo la collina di polvere bianca per tuffarsi in mare. Un senso di libertà e di serenità si respira al vederli e si partecipa al moto di liberazione che essi avvertono: è la corsa verso la speranza che li anima col candore dell’anima infantile. Non hanno timore di nulla quei bimbi che si slanciano senza preoccupazioni come fuori del tempo in uno spazio edenico. Nella novella di carattere teatrale, dove si intrecciano letteratura e autobiografia, la mamma, piccola, è seduta sul seggiolone della “casa lontana” e tutto appare luminoso allo sguardo visionario di Pirandello: “la luce d’un sole caldo”, “luce sonora e fragrante di mare”, la vetrina “che luccica di ricca suppellettile da tavola”. Ecco la morte mutarsi in vita, ma è solo il procedimento memoriale ad essere l’unico che ristabilisce la comunicazione dei vivi con i morti: «Ma come Mamma? Tu qui?».

Anche se il suo volto è magro e smunto dal male e dall’età, gli occhi hanno ancora la luce dei vent’anni. All’inizio del dialogo, lei, che sa dell’ansia di Luigi per il figlio che si trova al fronte, lo rassicura. Poi gli parla della vita: quella che viene trasmessa ai figli e l’altra che appartiene soltanto a chi l’ha vissuta.

« (...) La vita, figlio, tu lo sai, noi la diamo ai figli perché la vivano loro e ci contentiamo se qualcosa ancora di riflesso ne venga a noi; ma non ci sembra più nostra; la nostra, per noi, dentro resta sempre quella che non demmo ma che ci fu data, a sua volta; quella che, per quanto nel tempo s'allunghi, serba dentro pur sempre il primo sapore d'infanzia e il volto e le cure della mamma nostra e di nostro padre e la casa d'allora com'essi la avevano fatta per noi... Tu puoi saperlo, quale fu questa mia vita perché tante volte io te ne parlai; ma altro è viverla, figlio, una vita...».

Il racconto materno si fa dettagliato a partire dal viaggio a Malta «in una grossa barca da pesca, una tartana, verso l’ignoto». Fuggiva coi familiari – la madre e i fratellini - dalla sua terra per raggiungere il padre, là in esilio, dopo la fallita rivoluzione del 1848 ed escluso dall’amnistia borbonica. Le pesa l’avvilimento dello zio costretto a cantare il Te Deum per Ferdinando. E ripensa a un episodio che mostra il suo sentimento patriottico: l’aver cucito quasi al buio, in un sottoscala, la bandiera tricolore con cui il suo più piccolo fratello insieme agli altri congiurati, il 4 aprile 1860, uscì armato per affrontare il presidio borbonico del luogo. Era la stessa ora in cui a Palermo un altro dei suoi fratelli «doveva irrompere dal convento della Gancia»:

«Quando, dopo lo scampo miracoloso dei miei fratelli, i gendarmi ritornarono a perquisire la casa, mia madre ci dispose, noi figliuole, ciascuna presso un balcone e ci ordinò: “Se vi mettono le mani addosso, buttatevi giù”. Fiera donna di stampo antico, mia madre! Per mesi e mesi, figurati, per tutto il tempo che durò la prigionia dei garibaldini dopo Aspromonte non volle che si desse alcuna notizia della famiglia a quello più piccolo dei miei fratelli che si trovava, ufficiale dei bersaglieri, nell’esercito, solo per la supposizione che fosse stato anche lui tra i fucilatori di Garibaldi e contro all’altro fratello ch’ebbe la ventura di raccogliere in quell’infausta giornata lo stivale forato e insanguinato del Generale. Che giornata, quella! eppure la vita vostra, di voi miei figliuoli, dipende forse da essa (…); e fu allora ch’io conobbi per la prima volta vostro padre, reduce anche lui d’Aspromonte, garibaldino anche lui del Sessanta, carabiniere genovese».   

Nell’epilogo la poetica della memoria raggiunge il culmine quando Pirandello non scorge altra luce oltre a quella accarezzata dai sensi. Queste le parole di lei per lenire il suo intimo rovello: «Voi, del resto, tu che mi sei stato sempre lontano, così lontano, pensatemi ancora viva! Non sono forse io viva per te?».

Siamo nel nodo nevralgico del rapporto vivi-morti: il morto acquista realtà nella prospettiva della persona che è ancora in vita e invece la persona viva perde la sua realtà per quella che è morta,

Pirandello così risponde:

«Oh Mamma, sì! (...) Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu Mamma, tu non puoi dare a me una realtà!  (…) Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento! E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne dono andati. Tu sei qui (…) una realtà vera (…) ma che sono più io (…) ora per te? Nulla».

L’ombra si fa tenebra nella stanza e la voce materna come un’eco gli sospira: «Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle».

La visione delle cose perdute, sublimandosi nel ricordo, genera dunque la forza creativa della poesia. D’una poesia che sublima e non consola. 

Federico Guastella

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[1] In Novelle per un anno, vol. II, Mondadori, Milano, 1957.

 


La madre Caterina Ricci Gramitto la sorella Anna a sinistra Luigi e la sorella Lina a destra (credits foto: Istituto di Studi Pirandelliani... [http://www.studiodiluigipirandello.it]

 

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