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  • Autore: Salvo Micciché e Stefania Fornaro
  • Editore: Carocci Editore
  • Titolo: Scicli. Storia, cultura e religione (secc. v-xvi)

Rileggendo Scicli. Storia, cultura e religione (secc. v-xvi), di Salvo Micciché e Stefania Fornaro, per Carocci Editore (2018)

 

La città di Scicli nella storia della Sicilia e della Contea di Modica è l’argomento in cui si articolano le pagine del poderoso volume scritto da Salvo Micciché e Stefania Fornaro con la collaborazione di Giuseppe Nativo, Stefania Santangelo e Ignazio La China (prefazione di Giuseppe Pitrolo). Difatti si intitola Scicli. Storia, cultura e religione (secc. v - xvi), pubblicato nel 2018 da Carocci Editore.

Lo caratterizza la copiosa documentazione fornita dagli studiosi locali, a partire principalmente dai due volumi di Antonino Carioti[1] Notizie storiche della città di Scicli: «un erudito che, al di là di notizie che la storiografia moderna può oggi criticare e precisare o confutare, rimane una pietra miliare nelle fonti storiche della città». Sono passati in rassegna i contributi di tanti altri esperti che se ne sono occupati, e spicca il nome dell’archeologo Pietro Militello, di cui nell’Introduzione viene riportata un’annotazione sula difficoltà della ricostruzione: «Le fonti storiche su Scicli non sono anteriori all’anno Mille». Nasce da qui il desiderio di una ricerca finalizzata a saperne di più ed estenderla sino alla fine del Cinquecento. L’intento è dichiarato espressamente: il comprendere «l’evoluzione storica di fenomeni e iniziative culturali sviluppatisi nei secoli precedenti e andare “oltre il Medioevo”, nel “Postmedioevo”, alle soglie di quel XVI secolo (che non solo con il barocco, troppo spesso citato a sproposito) consacrò lo splendore di Scicli».

I coautori non solamente utilizzano gli studi già svolti, ma, demistificando, avanzano le loro ipotesi quando avvertono la carenza di dati o la non convincente spiegazione data a certi eventi. L’attenzione verte sull’etimologia del toponimo Scicli (Xicli o altra grafia attestata) per poi esaminare quando “una serie di case sparse” hanno dapprima dato luogo ai “pagi” (“villaggi”) e ai caseggiati; in seguito ad una vera città accentrata e difesa da una rocca. Sembra questo uno degli aspetti più notevoli dell’indagine. In merito, si legge: «Quello che è certo è che gli Arabi indicavano il toponimo come Shiklah, termine che non ha un particolare significato nella lingua araba e forse è solo la pronuncia di un termine preesistente, che non è escluso si rifacesse proprio ai Siculi sin dal tempo dei Greci. Gli Arabi, infatti, raramente cambiavano i toponimi delle città che conquistavano, ma ovviamene li adattavano alla loro lingua quanto a scrittura e pronuncia».

Carioti, precisano gli studiosi, riferisce sulla “zecca di Scicli” (che non c’è mai stata, come con dovizia di fonti e rilievi dimostra la numismatica Stefania Santangelo), con conio “Sicla” e conclude che Scicli prenderebbe il nome da Sicolo, re dei Siculi. In verità, a parte la citazione di Edrisi, non esistono epigrafi o fonti scritte che attestino il nome della città nella Tardo antichità o almeno nell’Alto Medioevo. Tante le ipotesi che non possono escludersi, tra cui l’identificazione del toponimo con il termine “Siculi”.

Ad essere accolta è l’analisi di Pietro Militello sulla transizione dell’antichità all’Alto Medioevo. Due le fasi ecologiche e culturali: la zona collinare e quella costiera, favorevole quest’ultima agli approdi e ai rapporti con l’estero: «La prima è sistematicamente periferia, la seconda vive invece momenti di pieno inserimento in reti di relazione a lunga distanza, ora attraverso la mediazione di Malta, ora direttamente dalle coste ioniche, a seconda delle tecniche di navigazione adottate fossero in grado di doppiare Capo Pachino...». Il mare, dunque: luogo di transito e sviluppo commerciale, di dominio del territorio e presidio della costa soprattutto nel periodo di transizione dagli Arabi ai Normanni. L’importanza di Scicli è nella fertilità del territorio e nel porto commerciale. E vi fu una stagnazione e declino quando entrò in crisi il rapporto con il mare: argomento questo che desta molto interesse e che rinvia al periodo della cosiddetta “anarchia baronale”, studiato da Illuminato Peri in Uomini, città e campagne in Sicilia dall’XI al XIII secolo (Laterza, Roma-Bari, 1990).

Il volume di Micciché e Fornaro è denso di avvenimenti storici e verrebbe la voglia di considerare molti altri aspetti sulla città, quali per esempio l’affermazione della collina di San Matteo (nome del santo cui era dedicata la Chiesa madre, ivi presente), scelta per una migliore difesa a causa delle incursioni arabe e saracene; lo sviluppo chiesastico alla fortificazione castellizia, posta a guardia di Chiafura e del mare, di un territorio che si estendeva all’incirca dall’attuale Marina di Modica fino alle porte di Santa Croce Camerina, lungo la costa; lo sviluppo ecclesiastico di chiese e conventi e monasteri; la presenza di san Guglielmo Cuffitella, l’eremita che segnerà la vita culturale e religiosa del Trecento; la peste tra gli anni 1346 e 1347, la tassazione nonché i censi perpetui. Un “summa”, un “compendio” interdisciplinare in sostanza il loro studio che riporta scrupolosamente i migliori contributi disponibili.

Va allora conosciuto e apprezzato per avere posto all’attenzione i difficili problemi inerenti allo sviluppo di questa città del territorio ibleo, i cui aspetti più appariscenti sono recentemente venuti alla ribalta grazie ai film del commissario Montalbano. Adesso disponiamo per fortuna di un validissimo strumento di conoscenza e di interpretazione: utile non solo all’addetto ai lavori che vi troverà rivalutazioni storiografiche, ma a quanti vogliono stabilire un rapporto con la memoria storica del logo e dei suoi abitanti.

 

Suggestiva immagine con cui l'arciprete sciclitano Antonino Carioti descrive il paese di Scicli: «fa curiosa mostra di un’aquila a chi l’osserva dal colle della Madonna della Scala, e da colà chi v’entra in città, intera in tutte le sue parti la vede e la comprende». Poi evidenzia che nell’attività militare: «si distinse nel militare [...] per li due castelli».

 

Anche se resta difficoltosa la datazione originaria, si sa che le fortificazioni erano del castello Triquetro (o torre dei Tre Cantoni) e del Castellazzo, costruiti sul colle di San Matteo dato che la popolazione abitava le basse alture tra il torrente di Modica e l’Irminio o sui rilievi collinari che si affacciavano al mare. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente la scelta fu dettata dall’esigenza difensiva contro le scorrerie vandaliche. Sicché, luoghi appartati e fortificati si rendevano necessari per una maggiore sicurezza. In quest’ottica, l’anzidetto colle, idealmente posto tra le tre cave del torrente di Modica, di San Bartolomeo e di Santa Maria La Cava, poteva consentire un’adeguata tranquillità a un esteso insediamento rupestre, a una vera e propria “città trogloditica” sulle pendici di Chiafura. La fortificazione dei “Tre Cantoni” probabilmente fu avviata dai bizantini per contrastare la temuta invasione degli arabi, a partire dal 747 d. C. dopo che erano stati sconfitti a Cipro. 

Micciché e Fornaro, seguendo l’itinerario tracciato dall’archeologo Pietro Militello e da illustri studiosi che si sono occupati dell’incastellamento nel Medioevo, come Ferdinando Maurici, riportano il suo seguente brano: «Dopo la conquista araba (Scicli cadde nell'864/865) le strutture difensive furono rilevate dagli invasori e utilizzate per i propri scopi; l'importanza militare di San Matteo quindi continuò e, quando con il 1091 i Normanni terminarono la riconquista della Sicilia, l’altura era ormai sede di un insediamento stabile che venne ufficialmente riconosciuto ed assegnato al controllo della chiesa siracusana»[2]. L’accentramento nel  Kastron, precisano i valenti ricercatori, favorì di certo il consolidarsi del toponimo Shiklah, menzionato dagli scrittori arabi nel XII secolo e anche nelle bolle papali, in primo luogo quella, nel 1043, di Benedetto IX in cui si cita il convento di San Lorenzo[3].

La “fortezza-sperone”, che farebbe pensare più ai Bizantini che ai Normanni, potrebbe così avere una datazione credibile individuata nel 1255: «un termine ante quem da cui partire per la collocazione storica del castello»[4]. Il Thema, cioè la suddivisione del territorio in circoscrizioni istituite nel VII secolo dall’imperatore bizantino Eraclio I, dovette sicuramente contribuire alla creazione di un reticolo fortificato della Sicilia, «di cui facevano parte i fortilizi di Noto, Ragusa, Modica e Butera; in questo reticolo si inseriva anche Scicli»[5]. E va detto che la Scicli del Duecento, di notevole importanza commerciale e militare è «urbs inclita et victoriosa armorum sedes quarta»: “motto araldico”, unitamente al privilegio di “città demaniale” concesso da Federico II con il Real Rescritto del 14 febbraio 1245.

Il poderoso processo di incastellamento che i Bizantini attuarono per la difesa dal pericolo musulmano ebbe poi seguito  col riordinamento territoriale fatimita del X secolo che prevedeva la concentrazione della popolazione contadina in città fortificate. La città di Scicli, del resto, aveva già avuto durante l'impero bizantino la fisionomia di città “militare”, confermata nel Cinquecento, quando precisamente nel 1535, sotto il regno di Carlo V, divenne sede di “Sergenzia” per l’esigenza della difesa delle coste dai Turchi: una delle suddivisioni militari dell’Isola (la quarta di dieci circoscrizioni, specifica Mario Pluchinotta in Memorie di Scicli, (Tipografia La Perello, Scicli, 1932): «e il sergente aveva potere nei porti (i “caricatoi”) di Pozzallo, Mazzarelli (oggi Marina di Ragusa), Punta Secca, Punta Braccetto, Punta di Pietro, e due “scari”: lo scalo di Sampieri e quello di Scoglitti. Era un controllo non solo militare, ma anche economico; possiamo dire un controllo generale sulla popolazione, anche dal punto di vista igienico-amministrativo»[6].

Puntualizzano poi Micciché e Fornaro che la prima menzione certa del castello si trova in documenti del 1282-1302 relativi alla guerra del Vespro e citano le notizie desunte dallo scritto di Emanuele Canzonieri Il castello dei Tre Cantoni di Scicli (RG) e l’analisi statigrafica delle strutture murarie (in “Notiziario storico di Scicli”, III, dicembre 1977): «Il castello di Scicli è difeso verso est, ovvero verso l’altopiano da un fossato scavato nella roccia largo circa 12 m, profondo 8-10 m. Sul fossato verso sud-est vi è la costruzione triangolare detta “castello dei Tre Cantoni” (castello Triquetro), quello che in un documento del 1346 viene detto castrum parvum (citato da Vito Amico cita come “Castellaccio”). Sulla punta dello sperone vi sono i ruderi del castrum magnum, detto Castellazzo»[7]. Ed era il “Castellaccio” a guardia di Chiafura, del mare e come delimitazione da occidente: «In epoca normanna, dunque, convivevano due fortificazioni poste ai margini orientale e occidentale della collina di San Matteo, a difesa di un abitato dai connotati marcatamente rupestri»[8].

Il “primo vero documento” che testimonia l’esistenza dei castelli è del 1346: vi si parla delle fortificazioni del castello Triquetro e del Castellaccio (castrum magnum e castrum parvunu) a proposito di una traditio feudi[9]: le grotte di San Matteo e poi di Chiafura erano trasmesse in eredità o compravendita per atti notarili.

Avviandoci ora alla conclusione, possiamo dire che desta curiosità e meraviglia la descrizione fatta da Carioti sulle “sette porte” e sulle “sette torri di Scicli”. Sull’argomento i coautori citano il contributo di Bartolo Cataudella che la riportò nel suo noto volume su Scicli[10].

Castelli e santi furono un binomio indissolubile per l’identità collettiva. Negli anni ’30 e ’40 del Cinquecento la Sicilia era una “fortezza assediata” dal pericolo turco, sicché Scicli, città “di frontiera”, ebbe l’opportunità di inventarsi una Madonna con una specifica funzione: nasceva il culto della Sancta Maria Militum, “Vergine guerriera” (detta Madonna delle Milizie), basato su una leggenda che narra del suo intervento risolutore e miracoloso a favore di Normanni e Sciclitani contro gli infedeli.

Dopo il terribile terremoto del 1542, e quello meno violento del 1546 che colpì il Sudest, il Kastron era ancora considerato il “centro di gravità” della città per essere poi adibito il castello anche come carcere secondo l’attestazione di un documento della Segreteria di Giustizia della Contea di Modica del 1547[11]. Usato e mantenuto a fine Cinquecento, governato dallo spagnolo Bernardino Guzman, il castello, ha osservato Emanuele Canzonieri[12], era ormai in declino: rare le spese straordinarie e il castellano non risiedeva più a Scicli.

L’assetto urbano del territorio mutò nel Cinque-Seicento con la crescita degli abitati oltre le antiche mura: un processo di scivolamento dal collinare sito originario al fondovalle sottostante che fu anche favorito dalla fondazione della “nuova terra” di Vittoria. Ma questa è una storia nuova, moderna, con essa il Medioevo stava davvero per finire.

Federico Guastella

 

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[1] Antonino Carioti (1683-1780) visse a Scicli dove dapprima fu canonico della Collegiata di S. Bartolomeo e, dal 1721 fino alla morte, arciprete della Chiesa Madre di S. Matteo Apostolo. Pietro Militello lo definisce “erudito, storico, antiquario nonché poeta”; lasciò il voluminoso manoscrittoNotizie storiche della città di Scicli, composto e riveduto per un lungo arco di tempo (tra i primi decenni del Settecento e il 1780). Vi ricostruisce la storia di Scicli dalle origini mitiche fino ai suoi giorni, attraverso Realien e documenti archivistici, ma anche utilizzando la sua fervida immaginazione che lo portava ad inventare e dare libere interpretazioni. Il manoscritto è stato pubblicato dal Comune Biblioteca comunale “La Rocca” di Scicli, a cura di Michele Cataudella, nel luglio del 1994.

[2] Cfr. P. Militello, Dall’Antichità al Medioevo, Per una storia del territorio, in Id. (a cura di), Scicli archeologia e territorio, Progetto KASA, Officina di Studi Medievali, Palermo 2008, p. 325.

[3] S. Micciché e S. Fornaro, Scicli. Storia, cultura e religione (secc. v – xvi), Carocci Editore, p. 41.

[4] Ibidem, p. 62.

[5] Ibidem, pp. 37-38.

[6] Ibidem, p. 181.

[7] Ibidem, p. 63.

[8] Ibidem, p. 68.

[9] Ibidem, pp. 105-106.

[10]   Bartolo Cataudella, Scicli storia e tradizioni, Comune di Scicli, Scicli, 1970.

[11] S. Micciché e S. Fornaro, Scicli. Storia, cultura e religione (secc. v – xvi), op. cit., p. 187.

[12] E. Canzonieri, Il castello dei Tre Cantoni di Scicli, op. cit., p. 72.

 

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