Libri

  • Autore: Giuseppe Micciché
  • Editore: Centro Studi Feliciano Rossitto

Pubblicato un nuovo saggio storico del professor Giuseppe Micciché: L’emancipazione della donna in Sicilia (Centro Studi Feliciano Rossitto, 2018)

 

Ragusa, 14 agosto 2018 – In Sicilia l’ingresso dell’elemento femminile nella sfera pubblica, entro la quale più che nella sfera privata si rende visibile il livello di parità con l’uomo, è risultato estremamente ostacolato e ridotto di fatto entro limiti molto modesti da una realtà arretrata sotto l’aspetto economico e sociale e da condizioni di vita che vedono subordinato il “sesso debole”. Se a ciò si aggiungono una corposa presenza della proprietà latifondistica, patti agrari vessatori, insediamenti industriali asfittici, un’altissima percentuale di analfabeti di sesso femminile e “una presenza ecclesiale fortemente ascoltata e alimentatrice di principi che riservano alle donne il privato”, si comprende benissimo come il cammino della donna verso la completa espressione delle proprie capacità sia stato alquanto articolato e difficile.

A scandagliare l’articolato periodo storico isolano che va dagli ultimi decenni dell’800 ad oggi, con particolare attenzione all’area degli Iblei, attraverso una certosina ricerca supportata da una nutrita bibliografia e sviluppata tenendo conto dei variegati ambiti (sociali, culturali, economici e politici) in cui la storiografia ha maturato il suo percorso è il pregevole saggio “L’emancipazione della donna in Sicilia” (Editore Centro Studi Feliciano Rossitto, Ragusa, 2018, pp. 116) dello storico santacrocese Giuseppe Micciché, con maturata perizia su variegate tematiche riguardanti la storia politica e sociale siciliana tra ‘800 e ‘900.

Abbiamo posto allo storico alcune domande per capire meglio la tematica del libro.

• Si tratta di una difficile itinerario della donna in una Sicilia molto arretrata?

– “Di questa condizione di arretratezza troviamo conferma in una letteratura abbastanza estesa, che comprende inchieste parlamentari e private – da quella del Franchetti e Sonnino del 1876 e del Damiani del 1883, a quella del Lorenzoni del 1907 – studi etnografici – in particolare del Pitrè e del Salomone Marino – romanzi e novelle – soprattutto del Verga, del Capuana e del De Roberto”.

• Qual è il panorama in ambito politico?

– “Di politica la donna non si intendeva. Raramente se ne parlava in casa. La partecipazione alla vita politica risultava molto limitata anche per gli uomini. Il sistema elettorale, introdotto con la legge del 1860, riproducente quella già in vigore nel Piemonte, faceva sì che nei vari Comuni gli impegni di natura politica ed amministrativa riguardassero pochi elementi, i cosiddetti ‘notabili’. Nel 1861, su una popolazione di 126.043 abitanti, appena 2.541 uomini godevano dell’elettorato e risultavano compresi nelle liste relative ai tre collegi – Comiso, Ragusa Superiore, Modica – in cui il Circondario era diviso”.

• Si sono verificati contributi di donne a manifestazioni di lavoratori contro i gravami fiscali?

– “Se ne sono registrati durante la vicenda dei Fasci siciliani, ai primi del nuovo secolo. Il primo dopoguerra vede a Vittoria, Comiso, Modica, Scicli un certo numero di donne partecipare ad agitazioni popolari fortemente coinvolgenti. Per larga parte degli anni ’20 e tutti gli anni ’30 giovani fasciste, vedove di guerra, massaie rurali vengono ampiamente mobilitate nel quadro delle manifestazioni volte a garantire il consenso al nuovo regime, mentre la filosofia maschilista, sostanzialmente condivisa dalla Chiesa, continua a dominare tenendo le donne nella vecchia subordinazione”.

• E dal secondo dopoguerra?

– “Si creano finalmente condizioni favorevoli alla fuoriuscita dell’elemento femminile dall’ambito ristretto del privato per immettersi in misura crescente quale elemento attivo nel sociale e nel politico”. 

Giuseppe Nativo

 

Giuseppe Micciché

Già docente di discipline umanistiche nelle Scuole secondarie, co-fondatore nel 1981 del Centro Studi “Feliciano Rossitto” di Ragusa (ricoprendo la carica di Presidente fino al 2002), ha al suo attivo non pochi saggi che vanno a sviscerare, in maniera esaustiva, variegate tematiche riguardanti la storia politica e sociale siciliana tra ‘800 e ‘900 (tra cui “Dopoguerra e fascismo in Sicilia”, 1976; “Il Movimento Cattolico nella Sicilia sud-orientale”, 1994; “Santa Croce Camerina nei secoli”, 2003; “Il Movimento socialista nella Sicilia sud-orientale”, 2009; “Economia e sviluppo in terra iblea”, 2014; “Il Partito Comunista nell’area degli iblei 1919-1965”, 2014; “Stampa cattolica e società nella Sicilia sud-orientale dai Borboni al Fascismo”, 2016; “La ripresa democratica – Politica e Società nei comuni iblei 1943-1948”, 2017).

 

  • Autore: Stefano Vaccaro
  • Editore: Il Convivio Editore

Pubblicato il saggio di Stefano Vaccaro Silfide, maga e sirena. L’ideale femminile nella letteratura italiana dell’Ottocento

 

“Forse le donne non sono operaie, contadine, impiegate, ogni giorno più numerose? Non equivale almeno al servizio militare, la funzione e il sacrificio materno, che dà i figli all’esercito e all’officina? Le imposte, i dazi di consumo forse sono pagati dai soli maschi?”

Anna Kuliscioff (1854 – 1925) dalle colonne di Critica sociale 

Una figura muliebre vestita di scuro e con un grande velo che poggia sulle spalle estendendosi oltre la cintola. Sguardo fiero e consapevole del suo ruolo di donna. Eppure alcuni tratti somatici, appena adombrati, la ritraggono con una sorta di velata tristezza. Una donna siciliana in lutto o altro? Un enigma, forse. Tale si presenta la copertina, tratta dall’opera di Agache (Énigme, olio su tela, 1888), della recente fatica letteraria del giovane siciliano Stefano Vaccaro, “Silfide, maga e sirena. L’ideale femminile nella letteratura italiana dell’Ottocento” (Il Convivio Editore, Catania, 2018, pp. 128), con cui indaga, attraverso un testo ricco di articolate citazioni e una copiosa bibliografia, la delicata tematica del “conflitto uomo/donna” che funge da leitmotiv alla raffigurazione della femminilità in tutte le sue molteplici sfumature.

La letteratura, annota la prefatrice Maria Lucia Riccioli, non è solo testualità ma è anche e soprattutto rappresentazione in quanto lo scrittore “non solo ritrae, rispecchia, racconta, rielabora, ma dà voce ai personaggi” ponendosi come una sorta di arbiter tra i personaggi e il lettore, affinché le loro diverse sfere di esistenza trovino un punto di incontro e a volte di reciproco “leggersi” ovvero “riconoscersi al contempo diversi e simili”.

Inizia così il viaggio letterario intrapreso da Stefano Vaccaro, figlio degli iblei, laureato in scienze dei Beni culturali presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano con una tesi in letteratura italiana moderna e contemporanea, autore di saggi volti ad analizzare la produzione letteraria italiana delle intellettuali otto-novecentesche con particolare attenzione alle opere e biografie delle autrici siciliane.

Quello di Vaccaro è un itinerario la cui architettura è inanellata di immagini e suggestioni attraverso cui ricostruisce una serie di volti e storie che riflettono la percezione artistica (ma anche sociale) di un secolo in continuo mutamento come l’Ottocento.

È il periodo in cui la produzione letteraria italiana si arricchisce di figure femminili dalle personalità ora bonarie ed amabili, ora diaboliche ed inquietanti. In Verga, ad esempio convivono le opposte, dicotomiche visioni della psiche e della stessa fisicità femminile. Gli scenari piccolo-borghesi e le ambientazioni mondane e rusticane, proprie delle opere verghiane, fanno da sfondo a personaggi e trame dominate in buona parte da due tòpoi letterari ricorrenti sintetizzabili nella “fenomenologia amorosa e nel microcosmo familiare”. Alla base di entrambe queste esperienze risulta essere la donna, nelle sue varianti vitalistiche (e veriste), ora nella sua veste affascinante e risoluta (cliché richiamato nel quarto romanzo di Verga “Una peccatrice”, pubblicato nel 1866, da cui è tratto il titolo del libro di Vaccaro), ora in quella di angelo del focolare, protettivo e amorevole. In questi luoghi di finzione la donna non fa altro che aggiungere “vapore trasparente e illusorio” fomentando così la sua aura di apparizione enigmatica.

 

Cosa ti ha ispirato a scrivere il libro?

“Abitando in centro storico, a Ragusa Superiore, mi è spesso capitato di alzare gli occhi e di scrutare, tra filari di edifici barocchi, una piccola targa recante la scritta: QUI VISSE MARIANNINA COFFA (1860-1876). Nulla di più, nessuna altra didascalia, nessuna altra informazione, il silenzio! Quando in realtà ci sarebbe così tanto da raccontare. La ricerca è stata ispirata dalla storia delle donne che troppo spesso, per troppo tempo, non hanno avuto il giusto riconoscimento o semplicemente l'opportunità di esprimere i propri pensieri perché nate donne, perché ritenuti esseri inferiori. Mi piaceva mostrare, per una volta, l'uomo, la figura maschile, atterrita dalla presenza femminile”.

 

Qual è la figura di donna siciliana che ti ha colpito di più e perché?

“Il periodo che studio è l'Ottocento che è anche l'epoca nella quale un'intera generazione di autrici impugnò la penna per rivendicare - con esiti più o meno riusciti - la necessità di esprimere le proprie idee, di confrontarsi politicamente e intellettualmente, di godere di spazi del sapere prima quasi del tutto preclusi, quali giornali, periodici e riviste, di poter scrivere e pubblicare proprio come gli uomini. Le donne di cui parlo hanno dei nomi anche se a volte sconosciuti alla critica, sono Giuseppina Turrisi Colonna, Letteria Montoro, Rosina Muzio Salvo, Concettina Ramondetta Fileti, Lauretta Li Greci e diverse altre, interpreti del più alto sentire muliebre siciliano e nazionale”.

 

Se dovessi effettuare un excursus sintetico della figura muliebre, con riferimento anche alla dignità del suo ruolo, nella letteratura siciliana dal Duecento all’Ottocento, cosa scriveresti?

“Allargherei decisamente il discorso oltre alla letteratura. La Sicilia è terra di grandi donne che hanno dato un contributo fondamentale alla storia regionale e non solo. Spesso la levatura morale ha coinciso con l'importanza del ruolo ricoperto, altre volte no. Per restare nel comprensorio ibleo penso alla scaltrezza politica di figure come Anna I Cabrera (1459-1526) che seppe legare il suo nome a quello dei reali di Spagna, così come la discendente Vittoria Colonna Cabrera (1558-1633) fondatrice dell'omonima città e in tempi relativamente più recenti gli altissimi esempi di santità delle beate Maria Schininà (1844-1910), Maria Barba (1884-1949) e Maria Curcio (1877-1957), e ancora, quello della filantropa Maria Paternò Arezzo (1869-1908) oltre che della figura rivoluzionaria di Maria Occhipinti (1921-1996). Tutte donne le cui esperienze hanno magnificato la terra iblea illuminandola con sprazzi di luce attraverso il loro stesso vissuto”. 

Giuseppe Nativo

  • Autore: Susanna Valpreda
  • Editore: Bonanno Editore

Essere siciliani tra il IV e V secolo

 

Una Sicilia da amare. Una Trinacria da raccontare sotto il cielo stellato. Una Sicilia in cui il mito rappresenta quel sottile velo tra cielo e terra, due lembi che si toccano e si intrecciano in una dimensione parallela. Una Trinacria dal sapore antico dove ancora si sentono i passi degli dei e degli eroi. Una Sicilia dove la Storia si permea con la natura dei luoghi incuneandosi nelle pieghe del tempo. Un Trinacria bilingue dove il greco e latino trovano un punto di incontro nella stessa essenza della vita e un connubio senza condizioni in pitture rupestri e iscrizioni sepolcrali.

A proposito di quest’ultime, Susanna Valpreda, autrice del pregevole saggio “Sikelia: la Sicilia orientale nel periodo bizantino” (Bonanno editore, pp. 174), segnala due iscrizioni sepolcrali rinvenute in Sicilia dedicate a bambini morti in tenera età e che la studiosa trova “assolutamente commoventi”.

La prima epigrafe, del IV secolo, in latino, è stata rinvenuta a Catania (ma è conservata al Louvre), nella necropoli di via Dottor Consoli. E’ dedicata a Iulia Florentina, una bimba cristiana, "dulcissima atque innocentissima", morta a soli diciotto mesi e battezzata in punto di morte.

La seconda iscrizione, in greco, è quella inserita su una lapide, risalente al IV-V secolo, rinvenuta nel cimitero vicino Chiaramonte Gulfi (in territorio ibleo). Risulta decorata con una menorah e riporta l'iscrizione: "Giasone il bambino", la cui età doveva essere compresa fra i 2 e gli 8 anni.

“Anche questa è la Sicilia - scrive la ricercatrice - stessa isola, stessa epoca, due bimbi mancati all'affetto dei loro cari, una cristiana, l'altro ebreo, in una famiglia si parlava latino, nell'altra il greco”. Entrambe le famiglie avevano una comune matrice, ovvero accomunati dall’essere siciliani! 

Giuseppe Nativo

  • Autore: S. Micciché, S. Fornaro
  • Editore: Carocci editore

Il 5 luglio 2018 per i tipi di Carocci Editore, in Roma, esce Scicli. Storia, cultura e religione (secc. V-XVI), il nuovo studio sulla storia medievale di Scicli, ad opera dello scrittore Salvo Micciché e dell'archeologa Stefania Fornaro.

Nel libro, la cui prefazione è a cura del prof. Giuseppe Pitrolo, sono ospitati anche i contributi della numismatica Stefania Santangelo (IBAM, CNR Catania), dello storico Ignazio La China, del giornalista e scrittore Giuseppe Nativo.

«Che cosa si conosce realmente di Scicli nel Medioevo? – si sono chiesti gli Autori – Che cosa tramandano le fonti, i reperti dell’abitato e del circondario (e poi della città) di Scicli e le varie forme del suo toponimo (Xicli, Sicli, Sycla, Shiklah...)?» Per rispondere a queste domande, il volume analizza la storia, la cultura e la religione di Scicli dal Medioevo al Cinquecento commentando le fonti e i reperti relativi alla storia della città.

«L’importanza di Scicli nell’ambito della Contea di Modica, il più vasto Stato feudale della Sicilia, – sottolineano Fornaro e Micciché – si impose con forza anche grazie alla sua felice posizione geografica, non lontana dal mare».

Toponomastica, onomastica, culti e storie di uomini e luoghi, cristiani ed ebrei, dal V al XVI secolo: sono i percorsi di lettura che gli Autori propongono allo studioso e al lettore curioso che vuole approfondire la storia che conduce alla nascita della città iblea che sarà poi barocca e moderna e che Vittorini definì «la più bella del mondo».

Molto è stato scritto della Scicli barocca e moderna (si pensi agli ottimi lavori di Giuseppe Barone, Paolo Nifosì, Paolo Militello per esempio), abbastanza sull'archeologia del territorio sciclitano (anche grazie all'opera degli archeologi Pietro Militello ed Elio Militello), tanto sulla religione (Ignazio La China tra tutti); le fonti e gli scritti sul Medioevo erano sparsi in vari testi e documenti e gli Autori hanno l'ambizione di proporre un testo guida da cui partire per approfondire queste fonti e questi scritti con l'obiettivo di invitare giovani studiosi a portare avanti la ricerca e l'invito agli storici a proporre un rinnovato interesse per la storia medievale della città, che sicuramente va ampliata e ripensata, partendo dalle opere degli eruditi (Carioti, Perello, Spadaro...) e degli storici moderni (dal Cataudella al Santiapichi fino ai contemporanei).

Il volume nasce grazie alla collaborazione tra Carocci Editore, editore leader nel settore dei testi storici e scientifici dedicati agli studiosi e alle università, e Ondaiblea, Rivista del Sud Est, la nostra rivista che con orgoglio presenta lo studio a chi ama Scicli e la sua storia.

s. m.

 

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Il libro è disponibile in tutte le librerie d'Italia (anche online) e nel sito di Carocci Editore


Copertina

Al Centro Studi Feliciano Rossitto presentazione del libro di Gino Carbonaro

 

Il Centro Studi “Feliciano Rossitto” di Ragusa fa sapere che venerdì 22 giugno 2018, alle ore 18.00, presso la propria sala conferenze (Via Ettore Majorana, 5) sarà presentato il libro di Gino Carbonaro, “Donna, una storia senza eco - Misoginia Violenza Follia”.

Converseranno con l’autore Giuseppina Pavone (sociologa) e Turi Scalia (giornalista, scrittore).

La lettura di alcuni passi del libro sarà curata da Ornella Cappello e Pippo Antoci.

Concluderà l’autore.

 

G.N.

 

L’ardente opera poetica di Pedro Luis Ladrón de Guevara 

 

Il titolo, Tornerò dov'ero, un'allusione al primitivismo delle origini contro la disumanizzazione dell'era contemporanea? Un rifugio di salvezza per una civiltà nuova e nobilitante, non gravata e degradata dal peso assurdo della violenza e della sopraffazione, hobbesianamente lupesca? Certamente, questo e altro ancora. Parliamone, parliamo dell'accoramento di questo poeta spagnolo, di Murcia, Pedro Luis Ladrón de Guevara, italianista e autore di opere di poesia, di narrativa e di saggistica letteraria: un poligrafo, insomma, immerso nei ricordi ovvero i sogni di un passato che si fa desiderio e fuga dal presente, cioè dalla realtà degli affanni di una Storia ripudiata, da vilipendere, dimenticare: quella delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle persecuzioni, dei soprusi, delle barriere dove “L'umanità svanisce, si spegne/ [...]”. E in tutto questo assistiamo alla celebrazione di un'elegia che diviene religio della vita. C'è uno strazio nel cuore di questo poeta: la sorte dei migranti ovvero degli “ultimi”, che già ai primi del '900 scossero la sensibilità di uomini e grandi intellettuali come Benedetto Croce, Edmondo De Amicis, Mario Rapisardi, per non dire della filantropa - cent'anni fa - Francesca Cabrini, che costruì a Chicago un ospedale per loro. Ebbene, Pedro Luis è di quelli che vanno verso una coscienza universale e una civiltà cosmopolita; e sa bene che è in atto una trasformazione geopolitica epocale a causa del flusso migratorio.

È come se condividesse (e certamente è così) le istanze di quel Breviario Mediterraneo di Predag Matvejevic che già nel 1987 aprì la mente di tanti alle grandi riflessioni sull'uomo e sulla Storia. Oggi, l'emigrazione e i migranti sono al centro dell'attenzione della “Biennale Internazionale di Fotografia” dedicata al tema: “Mediterraneo, immenso archivio e profondo sepolcro”; e credo di non sbagliarmi, affermando che il nostro Poeta abbia tenuto in considerazione tutto questo, concependo i suoi versi, insieme ai grandi problemi di un Medio Oriente in pericolosa ebollizione. Penso, tra gli altri Stati, alla Siria, a Israele, alla Palestina. Ma l'arte, si sa, nasce anche dal sangue del mondo, ahimè! Ce ne dà ragione il componimento L'umanità svanisce, i cui versi mi ricordano quelli di Justo Jorge Padrón laddove, in E se Dio si stancasse di noi, dice: “Per non farci più amare/ verserebbero su di noi l'ambizione, / l'invidia, la violenza, la lussuria, l'odio...”; ma mi ricordano anche l'altro grande poeta spagnolo Manuel Vásquez Montalbán, in Morirà questa storia nella Storia (cfr: Il desiderio e la rosa): “di esplosione negli occhi/ frantumeranno le schegge/ della città vinta/ i corpi sono il mio corpo/ vita storia rosa carrarmato ferita”. Nell'uno e nell'altro vi ritrovo il pensiero critico del trappista Thomas Merton, soprattutto là dove affiora il rifiuto del materialismo consumista e l'anelito alla pace costruttiva tra i popoli della terra. Mi pare di cogliere il sospiro affranto del poeta nell'ossessiva auscultazione della natura che si ribella alle ingiustizie e ai soprusi dell'uomo sui propri simili: una storia che indispettisce il mondo e offende Dio. Ecco, questo di Pedro Luis è un teatro dello smarrimento e del dolore: qui, è l'elegia della Storia che nel dolore esistenziale rasenta la preghiera e diviene misura dell'ingiustizia dei confini e delle civiltà che si guardano in cagnesco.

Il lettore attento non può non notare che questa poesia, assai problematica, è costruita su segni di mutazioni epocali e che il cruccio e l'ansito civile contenuti nell'ansia delle parole ferite dalla rivolta o dall'indignatio del pensiero si fa condanna della Storia e, per contrasto, larvata speranza dell'uomo che vuole rinascere, come qui in Primato: “Rinascerà il pianeta:/ cancellerà Natura/ l'impronta prepotente/ distesa nella Storia/ da questo essere ingrato. / Umano poco umano”. Più di una tensione civile! E' tensione evangelica, ma anche condanna insistita contro il negativo e il destruens del mondo. Come un anatema che nega, nel grido, “il futuro del mondo”, prospettando la minaccia della fine. E se vogliamo dire di più: tutto il discorso poetico di Pedro Luis è riassumibile nelle parole toccanti di Esodo: “Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri nel paese d'Egitto”.

Come si vede, l'attenzione all' “Altro” qui è espressa attraverso la poetica dell'umanitarismo civile e biblico, come per esempio nelle allusioni in Non sarai corpo: “che hai fatto per quei popoli/ assediati dalla fame/ per quei figli dagli occhi grandi/ e dagli ancor più gonfi stomaci”. Siamo al momento cruciale dell'êthos biblico del “dopo” o dell'éschata, le cose ultime, ovvero la resa dei conti a Dio: “[...]/ guarderai il Suo volto senza confini/ e vedrai in un istante la tua apatia/ intinta nello sconforto/ dei popoli innocenti”. 

Il solco di Romolo e il fratricidio: la morte di Remo per mano del fondatore di Roma, secondo la leggenda; il confine, nel concetto rousseauiano secondo il Contratto sociale: delimitare una proprietà è già un segno di inimicizia verso l' “Altro”, il vicino, il confinante che si deve attenere a regole precise, pena la guerra e la morte. Questo motivo ritorna nel testo Rompendo le frontiere: “Non tracciare, figlio mio, / sulla mappa le frontiere. / Non solcare il planisfero/ con dei tratti in carboncino”.

Ebbene, questo motivo ritorna, più drammatico, in Lacrime sul mare: “Il figlio perso nella notte/ solcata da fragile zattera/ da un vecchio Continente a un altro, / dalla guerra crudele alla pace,/ da quasi assoluta miseria/ alla speranza in un domani”.

Che dire?, in questo libro c'è tutta la cronaca cruenta, drammatica della Storia contemporanea mondiale, dove la morte regna sovrana e sovrano è il simbolo del disprezzo della vita. Si leggano in questo senso i versi di Morire per te, che suonano come un avvertimento Ai membri di alcune ONG, a cui il testo poetico è dedicato. Soprattutto come disprezzo anatema condanna: “Sopravvivere a tante armi vendute/ da padroni con i diamanti al collo. / Campo di rifugiati, di massacrati/ bambini. I missili pagano il caviale”.

E’ il canto del tragico intonato sulla nota alta e toccante della Babele del mondo sempre più posseduto dai disvalori del crimine per i vecchi trenta denari

Giovanni Occhipinti

 

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Pedro Luis Ladrón de Guevara

(Cieza, 1959) Insegna Lingua e Letteratura italiana all'Università di Murcia. Si è occupato, con studi e traduzioni, di numerosi scrittori italiani classici e contemporanei, tra i quali Leopardi, Campana, Ungaretti, Luzi, Caproni, Magris, Tabucchi. Come poeta ha pubblicato Itinerarios en la penumbra (2003), la raccolta bilingue ispirata all’Italia Cuando la piedra habla/Quando la pietra parla (2004), Escarcha sobre la lápida (2007), Del sudor de las sirenas (2015). Tra le sue opere narrative si segnalano i racconti di Los mundos de mi mundo (2005) e El donante y otras historias (2015) nonché il romanzo La campana rasgada (2013).

Coltiva anche l’arte della fotografia, come testimonia il volume Viaggio in un’Italia senza tempo (2015) che riunisce insieme versi e immagini dedicati al nostro paese.

Ultima fatica letteraria Tornerò dov’ero (2018, pp. 82)

 

Lo scopo di un'opera onesta è semplice e chiaro: far pensare. Far pensare il lettore, lui malgrado

Paul Valéry