- Rubrica: Rileggendo i classici
Ovidio racconta nelle sue “Metamorfosi” l’amore tormentato di Tisbe e Piramo. Due giovani e una tragedia
Eccolo. Maestoso e imponente domina la scena con i suoi rami frondosi e carichi di prelibatezze. Stare lì a guardarlo, l’immaginazione si perde pensando come la natura sia generosamente prodiga e senza mai chiedere nulla in cambio come una forza autorigenerante e quando Ovidio vide per la prima volta l’albero del gelso, se ne innamorò completamente, estasiato dalla ricchezza e dalla bontà di quei frutti piccoli e rubini e bianchi e neri e succosi e zuccherini che regala nei mesi gentili tanta bontà da appagare il palato con una sinestesia di emozioni. Consapevole della sua bellezza, volle omaggiarlo parlandone nel quarto dei quindici libri che compongono la “Metamorfosi”, la sua opera magna.
Ma dietro la meraviglia di quest’albero si cela una storia che merita di essere ricordata. Si tratta della storia tormentata di due giovani innamorati, Piramo e Tisbe. Il loro sciagurato amore fu dilaniato e perseguitato fin dall’inizio, perché contrastato dai rispettivi genitori. Ma tutti i giovani, si sa, ne sanno una più del diavolo e anche Piramo e Tisbe trovarono sempre il modo di eludere gli ordini dei genitori. Di nascosto la loro cupidigia cresceva sempre di più e con gli sguardi rubati e con i bigliettini gettati e poi furtivamente raccolti e con frasi fuggenti e poi, se un amore è vietato, la fiamma ardente cresce sempre di più, fino a divampare e ad alienare ogni senso. Allo stesso modo cresceva la loro smania amorosa, e più ai due giovani era proibito frequentarsi, tanto più ardeva il loro sentimento, fino a quando Tisbe e Piramo pensarono di mettere fine al veto imposto e decisero di fuggire lontano da tutti per vivere la loro passione sotto la luce del sole, liberi da costrizioni. Si danno allora appuntamento vicino ad un albero di gelso e con veemenza immaginarono di esaudire finalmente ogni loro desiderio, a dispetto di tutto e di tutti, a dispetto dell’intransigenza stessa dei genitori, perché il sentimento più nobile deve sempre essere appagato.
Ma il destino, che non ha logiche di questo mondo, fu avverso e contrario con loro. Mentre Tisbe mestamente e con tanta bramosia si avviava nel luogo stabilito e onorare così la sua promessa, incontrò una leonessa dalle fauci insanguinate, segno che aveva appagato la sua sazietà. Alla sua vista Tisbe s’impaurì e fuggì, lasciandosi dietro il velo che ricopriva il capo e che fu prontamente annusato dalla fiera la quale lasciò in esso i segni prepotenti della sua presenza. Sopraggiungendo al luogo convenuto, l’ignaro Piramo vedendo il velo intriso di sangue, credette che la sua amata avesse perso la vita, sbranata dalla ferocia della fiera e senza pensarci due volte e impazzito dal dolore, sguainò il suo pugnale e si tolse la vita. Tisbe, vedendo il suo amato esanime, levò in cielo un urlo intriso di disperazione. La sua angoscia era al culmine e niente potette calmarla. Niente poteva ritornare come prima e senza pensarci due volte compì lo stesso identico malsano gesto. Abbracciò fortemente Piramo, intensamente, e con la sua stessa arma mortale e con lo stesso cieco dolore, l’uno accanto all’altro, si tolse tragicamente la vita. I singulti del suo sangue zampillarono in ogni dove colorando qua e là i piccoli frutti, testimoni di un amore sfortunato. Ed è per questo che alcuni di essi sono bianchi, altri carmini, altri neri a testimonianza della purezza, della passione e del dolore di quell’amore proibito.
E la pavida luna dall’alto della sua immensità, acclarava inorridita quell’amore sfumato in tragedia, muta e impassibile. La storia di Piramo e Tisbe però resterà in eterno ad ispirare altri giganti della penna, perché anche queste storie dall’epilogo tragico, suscitano emozioni e inquietudini risvegliando sentimenti che altrimenti resterebbero sopiti.
Gabriella Fortuna