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  • Argomento: Storia

Bernardo Giovanni, il successore contrastato di Bernardo Cabrera[1]: «Ma per quanto prode in guerra, altrettanto si mostrò tiranno verso i propri vassalli»

 

Nel 1447 insorsero i ragusani contro le angherie feudali, vittime poi di una dura repressione: con la rivolta si ebbe l’incendio dell’archivio del castello che portò alla distruzione della documentazione sulla Ragusa antica e medievale. E fu ucciso il suo figliastro. Da allora, il contado, che la città deteneva dal 1060, venne trasferito a Modica.

L’insurrezione, estesasi a tutta la Contea, non ebbe gli esiti attesi in base alle richieste avanzate. Re Alfonso ordinò a suo favore un nuovo diploma di investitura (1452), condannandolo però al pagamento dei 60.000 ducati al fisco per appropriazioni indebite secondo la decisione della Gran Corte Regia. Inevitabile lo smembramento graduale della vasta Contea per debiti ereditati dal padre o contratti posteriormente da lui. Anche a causa della somma da sborsare.

Nel 1457 l’estensione si ridusse per concessioni di alcune aree (il territorio di Biscari, di Chiaramonte – poi ricomprato –, di Comiso, di Giarratana, di Spaccaforno): “talché al Conte non rimasero che Modica, Ragusa, Chiaramonte e il maggior reddito di Scicli”. Quali gli eventi che lo indussero in seguito ad una vita quasi da penitente al punto di essere amato dai vassalli? Un fatto è certo: dovette esserci in lui una rivisitazione interiore esigente da provocare un cambiamento di condotta.

«Un distico – scriveva Guastella nell’Ottocento – udito da una popolana di Modica, mi pare potesse adattarsi a quel Giovanni Cabrera, prima divenuto esoso con le angherie, poscia benemerito con le concessioni enfiteutiche ai vassalli: Crapuzza, ca ppi nui si’ crapa r’oru / Rinnillu, si spiddiu lu tiempu amaru!» (“Capretta, che per noi sei capra d’oro / diccelo si è speso il tempo amaro”). Chiara l’allusione allo stemma dei Cabrera: una capra in campo dorato, simbolo di potenza per il popolo; evidente la fine di ogni sopruso da parte del conte che fece opere di beneficenza, provvedendo a lasciti e riscuotendo canoni non esosi.

   Morì nel 1474 e fu il figlio minorenne Giovanni III (o Giannotto) a succedergli, morto tre anni dopo. Nello stesso anno della successione la Contea conobbe il periodo buio segnato dalla strage degli ebrei, perpetrata a Modica il 15 agosto 1474, giorno dell’Assunzione, su istigazione del clero locale: ne furono uccisi 360 senza alcun riguardo al sesso, all’età, alla condizione. Mutato ormai il clima della buona intesa: la minaccia ottomana spingeva alla caccia agli ebrei. E già nel 1455 Leone, oriundo da Ragusa, aveva tentato di condurli dalla Sicilia a Gerusalemme.

    L’eccidio modicano poneva fine con la violenza una secolare integrazione con i nuclei ebrei sparsi in ogni borgo della Contea dall’entroterra alla fascia costiera. E si sa che particolarmente nei villaggi tardo-romani e bizantini la convivenza dell’etnia locale con nutriti gruppi d’immigrati, provenienti dalla Siria-Palestina, dalla Pentapoli, dall’Egitto, dai Centri dell’Asia Minore, da Costantinopoli, aveva dato luogo a profonde trasformazioni del paesaggio agrario[2].

Raffaele Solarino, che ha toccato l’argomento nel secondo volume della Contea di Modica, al capitolo VI ha scritto:

 

Moltissimi Ebrei stanziavano in questa regione, da tempi immemorabili. Al principio dell’era cristiana S. Marziano fu martirizzato presso la Sinagoga in Siracusa: sotto i Saraceni gli ebrei eran sottoposti, come i cristiani, al pagamento della gezîa: nelle guerre angioine e nelle lotte aragonesi avevan difesa la Sicilia come loro patria, ed in ciascuno dei nostri comuni occupavano un quartiere ch’era il loro ghetto. Quel quartiere in Modica e in Ragusa Inf. si diceva e si dice Cartidduni, in Scicli Meschita, e la tradizione ricorda le loro sinagoghe nella chiesetta dell’Annunziata in Ragusa Inferiore, e in una via di Modica. A Comiso recentemente fu trovata una iscrizione ebraica che indica la loro colonia e i documenti pubblici ricordano i nomi di parecchi ebrei sparsi nella Contea. Era gente laboriosa, quieta, che viveva di industria, di traffico e di risparmio, ma odiata sempre per quella teoria della loro schiavitù eterna, sanzionata dai teologi e dai canonisti (...). I preti del pergamo bandivano la crociata ai loro danni, come quel Fr. Giovanni Pistoia che fondò il convento S. Domenico in Ragusa, gli scrittori li coprivano di contumelie, il Governo incrudeliva… non è da meravigliarsi che in un momento di selvaggio zelo religioso la plebaglia si scatenasse contro di loro (...). Il numero degli uccisi in un solo giorno e nella sola Modica fu di 360 (Inveges) o 460 (Littara) o 470 (Carafa) o di 600 (Surita), e sarebbe cresciuto di molto, se il Vicerè Lopes Ximenes di Urrea non fosse volato a Modica a rimetter l’ordine. Dei capi sediziosi alcuni furono giustiziati, altri mandati in esilio, e il magistrato municipale, a non far proseguire ulteriormente le indagini della giustizia, venne ad una composizione, come portavano i tempi, pagando al Fisco la somma di settemila fiorini.

 

Approfondiscono l’argomento le ricerche di Modica Scala che, rese note nel volume Le comunità ebraiche nella Contea di Modica (Setim, Modica, 1978): dopo quelle del Di Giovanni e dei fratelli Laguminia nel Codice Diplomatico dei Giudei di Sicilia - “l’opera di maggiore impegno ed interesse” - risultano le più aggiornate.

Diciotto anni dopo, l’editto dell’Alhambra, emanato dai sovrani spagnoli Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia e promulgato il 31 marzo 1492, bandiva tutte le persone di religione ebraica, pena la vita, dal territorio governato. L’unica via per restare sarebbe stata la conversione al cristianesimo, ma neanche quella evitò ai reconciliados persecuzioni e repressioni da parte dell’inquisizione. La contrapposizione restava un dato costante: non a caso, le ricerche di Giuseppe Barone insistono su quest’aspetto: «La conversione forzata costituì l’unica alternativa per gli ebrei che non vollero ripercorrere le vie dell’esilio, anche se neppure i neofiti riuscirono ad evitare la nuova ondata di persecuzioni del XVI secolo»[3].

Il Viceré dell’epoca, che differì la pubblicazione dell’editto, consentì alle città siciliane di inviare al re ambasciatori per dissuaderlo dall’ingiusta proscrizione e diede tempo agli ebrei di versare una somma al fisco Regio per ottenere una dilazione alla partenza. Ma il cattolicissimo sovrano raddoppiava i rigori pecuniari, consentendo agli espulsi di portare con sé soltanto una veste, un materasso, una coperta, due lenzuola e L. 1,25 per vettovaglie. Nefaste le conseguenze per la Sicilia che si impoverì di una consistente forza culturale, professionale, economica. Difatti, erano bravi medici gli ebrei che curavano anche i cristiani; proprietari di mulini ad acqua, si dedicavano all’attività molitoria e possedevano botteghe artigiane dove fiorivano attività tessili e di ferro. Commerciavano con l’isola di Malta e non erano assenti matrimoni e affari fra loro e i cristiani. In virtù del loro prestigio economico, i ricchi mercanti prestavano anche denaro sia ai Cabrera che alle famiglie altolocate, ricevendo in cambio protezione e rispetto.

Dopo Giannotto, estintosi il ramo maschile dei Cabrera, dapprima la sorella Anna e poi la madre, la contessa Giovanna Ximenes de Foix, governarono la Contea. Fu il re a decidere di dare in moglie Anna de Cabrera a suo nipote Alfonso Enriquez, figlio del grande ammiraglio di Castiglia. Per volontà di Giovanna il matrimonio venne celebrato a Modica nel gennaio del 1481 e fu lei ad imporre i due cognomi. D’ora in poi si affermerà la dinastia degli Enriquez De Cabrera che dimorò a Modica fino al 1486 e dalla Spagna resse la Contea fino al 1702 attraverso governatori nominati di volta in volta. Un territorio, dunque, gestito amministrativamente con “istruzioni” finalizzate ad una oculata gestione che avversasse appropriazioni indebite, inadempienze, conflitti fra cittadini e pubblici dipendenti pur nell’ambito di una concezione feudale del potere. Il bando emanato nel 1523 dal primo conte del casato Federico Enriquez, ritenuto dal Sortino Trono generoso e degno di grande stima, invitava chiunque a denunciare comportamenti difformi alla vigente normativa. Se sul piano del costume e sul modo di maneggiare i beni del feudo dovettero migliorare gli aspetti della vita sociale, gli istituti tuttavia non favorirono le azioni riformistiche quali per esempio le libere elezioni e i servizi pubblici. 

Da un punto di vista amministrativo fondamentale fu l’attività svolta dal fiorentino Bernaldo Del Nero, procuratore generale del Conte Ludovico (o Luigi) I Enriquez De Cabrera (1535-1565), che resse la Contea dal 1539 al 1543, tenuto conto delle “istruzioni” a lui date. Barone puntualmente ne ha rimarcato l’obiettivo che verteva “sulla necessità di applicare correttamente le leggi del regno nell’esercizio della giustizia evitando di agire de facto piuttosto che de jure, di ripartire equamente su tutti i vassalli le tasse e i donativi regi senza franchigie di favore, di non consentire frodi annonarie nel commercio del grano, di licenziare i funzionari corrotti e di sostituirli con ‘officiali’ onesti e capaci”[4]

Con specifici regolamenti da Bernaldo chiamati “Ordinanze, Statuti, Capitoli e Pandette dei diritti”, emanati nel 1542, vennero ordinati i vari settori della vita pubblica per salvaguardare l’ordine da abusi di potere, omissioni, arbitri: indubbiamente, il governo del territorio ne trasse vantaggi civili, sociali, politici[5]. Ampio e organico indubbiamente il tracciato riformatore con norme di buon governo ma con i limiti di un dispotismo. Sia pure illuminato, fu dettato da ambizioni autocratiche, tant’è che il conte Ludovico, il 13 gennaio1543, lo sollevò dall’incarico, sostituendolo con Antonino De Arellano[6] 

Grazie all’introduzione dell’istituto dell’enfiteusi i Cabrera e gli Enriquez Cabrera mantennero florida la Contea. I grani venivano raccolti in appositi carricatori (detti “scari”, dal greco eskarion – bacino di alaggio), tra cui quello imponente di Pozzallo, per essere esportati via mare[7]. Dal nuovo dinamismo nasceva il bisogno di un luogo d’incontro per gli affari e a Ragusa venne chiamato “Toccu” il ritrovo di togati e di commercianti, di mediatori e venditori provenienti da ogni parte dell’isola: un edificio dagli ampi portici, dove si assegnavano anche le gabelle.

La Contea, a partire dalla metà del secolo XVI, conobbe un periodo di grande splendore con l’affermazione di solidi possidenti e maestranze: “Le medesime assegnazioni” – ha scritto Raniolo – “sarebbero state di più, se i Conti Enriquez, in ispecie il primo ed il secondo Ludovico, non avessero alienato, vendendolo, gran parte del loro patrimonio terriero sotto forma di piccoli feudi – qualcuno di oltre un migliaio di salme -  a molti signori facoltosi già con titolo nobiliare od in attesa di acquistarlo, poiché il titolo come lo stemma costituivano allora un ambitissimo privilegio”[8]  

Le conseguenze del passaggio dal latifondo alla struttura enfiteutica furono sostanziali e toccarono più o meno i diversi ceti sociali interessati alla valorizzazione e sfruttamento delle terre. Rifiorirono le campagne con la costruzione di ville signorili e di masserie; si costruirono mulini, trappeti, palmenti; si avviarono opere di bonifica per la sistemazione dei poderi per renderli funzionali alla cerealicoltura e all’allevamento brado del bestiame. Nuove colture come per esempio la vite, la canapa e il lino favorirono l’imprenditoria e gli scambi commerciali. Come ha calcolato Enzo Sipione, tra il 1550 e il 1564 si formarono 1722 partite enfiteutiche per un’estensione di circa dieci mila salme, pari ad oltre trentamila ettari[9].

Non occorrerebbe dire altro anche perché sull’argomento esiste una copiosa documentazione. La mobilità sociale dovuta a una vera e propria rivoluzione economica e la qualità delle trasformazioni agrarie rispetto alle altre zone feudali della Sicilia furono un caso assolutamente unico: per circa due secoli e oltre si ebbe un rapporto innovativo con la terra che produsse ricchezza.

Nel 1713, con il trattato di pace di Utrecht, la Sicilia veniva ceduta a Vittorio Amedeo di Savoia.

 

Federico Guastella

 

:: Note

[1] Il padre, pur avendolo dichiarato erede universale dei feudi e della Contea, gli aveva imposto a favore del figlio illegittimo Raimondo il legato di 120.000 scudi. Lo stesso avrebbe potuto occupare la Contea fino alla riscossione di tale somma. E così avvenne: Raimondo vi rimarrà per più anni. Dopo il 1431 Giovanni Bernardo riebbe il feudo da re Alfonso e vi dimorò.

[2] L. Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in Storia della Sicilia, Società Editrice Storia di Napoli e della Sicilia, vol. III, Napoli, 1979.

[3] G. Barone, I Caratteri “Originali” 1. Ebrei, neofiti ed eretici in una civiltà di frontiera, in La Contea di Modica (secoli XIV-VIII), Atti del Settimo Centenario, a cura di Giuseppe Barone, volume secondo, Il Seicento, Bonanno, Roma, 2008. Cfr. anche S. Micciché - S. Fornaro, Scicli. Storia, cultura e religione (secc. V-XVI), Carocci Editore, 2018, con citazioni da Barone, Raniolo, Sipione.

[4] G. Barone, Per una storia delle istituzioni giudiziarie della Contea, in Società Siciliana di Storia Patria, Palermo, 1976.

[5] G. Raniolo, Introduzione alle Consuetudini ed agli Istituti della Contea di Modica: Parte I, 1985; Parte II, 1987, Edizioni Associazione culturale “Dialogo”, Modica.

[6] G. Raniolo, Il Governatore Bernaldo Del Nero. Dalla sua legislazione nella Contea di Modica al lungo processo del suo sindacato (1539-1547), Argo Software, Ragusa, 2006.

[7] Sul commercio del grano: O. Cancilia, Baroni e popolo nella Sicilia del grano, Palumbo, Palermo, 1989.

[8] G. Raniolo, La contea di Modica nel regno di Sicilia. Lineamenti storici, Edizioni Associazione Culturale “Dialogo” Modica, Arti Grafiche Motta, Avola 1997.

[9] E. Sipione, Concessioni di terre ed enfiteusi nella Contea di Modica, in “Archivio Storico Siciliano”, IV s., III, 1977.

 

 

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