- Argomento: Apicoltura
Si chiamano “Iblei” i monti che si estendono nella zona sud-orientale della Sicilia, degradando sino al mare. L’aspetto è unico. I continui movimenti orogenetici provocarono la formazione delle suggestive e selvagge “cave”: una sorta di canyon che in ogni senso solcano il tavolato ragusano.
Il carrubo, assieme a qualche bagolaro, al fico selvatico e al gelso, è l’emblema floristico più ricorrente. Lo rappresentano in modo magistrale i dipinti di Piero Guccione e nell’immaginario collettivo viene spesso associato alla ragnatela dei muretti a secco che, per favorire le rotazioni agrarie, separano i campi gli uni dagli altri.
Gli Iblei, copiosi di timo e altre piante spontanee, sono un richiamo per le api[1]. Non era sfuggita la loro importanza a Filippo Garofalo che nella seconda metà dell’Ottocento scriveva: «La coltivazione dei cereali è sì estesa che ha fatto disboscare tutte le terre anche le più aride e sabbiose, le balze più ripide, e manca il timo, il rosmarino, e la copia di altre erbe odorifere la cui abbondanza in queste terre dava prova dell’Ibla in Ragusa (…). L’aere tiepido della nostra marina favoreggia la nutrizione delle api, ed i nostri maggiori vedevano nelle nicchie sepolcrali esistenti in molte rupi volte a mezzogiorno delle nostre valli, dei naturali alveari, dai quali scorreva profluvio di miele (…), e tutta questa visione poetica altro non era che sciami di api avventuriere nidificanti a caso in quelle cellette. Tuttora però non mancano sciami errabondi, non mancano le api stazionarie, e se si avesse cura di non far mancare artificialmente i fiori come il timo e il rosmarino ed altre erbe, si vedrebbe al primiero stato l’abbondanza del miele e della cera».
In un tempo lontano vi soggiornarono dunque in abbondanza, producendo un soavissimo miele di cui parlarono Virgilio, Seneca, Silio Italico, Ovidio, Teocrito. Antica l’arte del melaio, esperto maestro che padroneggiava strumenti e praticava l’apicoltura, avendo ereditato di generazione in generazione conoscenze legate alla terra e alle erbe. Ancora oggi, sia pure in modo alquanto ridotto, viene esercitata malgrado la paventata estinzione dei preziosi insetti. Le arnie di ferùla[2] (i “vasceddi”) con il loro calore accolgono le misteriose api, timorose del freddo. Nomadi i “milari”: trasportavano le loro arnie nei luoghi della fioritura primaverile e chiamavano con un nome specifico le diverse qualità di miele prodotto: “meli ri satra” (miele di timo), “meli ri çiuri” (miele di fiori), “meli ri carrua” (miele di carrubo).
I melari di Chiaramonte Gulfi, pittoresco paese in provincia di Ragusa, dovettero essere in numero cospicuo al punto da avere i loro statuti come risulta dal testo di Corrado Melfi, Barone di San Giovanni, che si intitola “Capitoli della maestranza dei maestri fascellari d’api della città di Chiaramonte del 15 gennaio 1795” (Tip. “Lo Statuto”, Palermo, 1897). Dopo la pastorizia, era l’industria del miele a produrre un sufficiente sviluppo in un territorio dallo scarso sfruttamento agricolo: perciò, bisognava regolamentare l’attività al fine di dirimere possibili controversie. Furono gli stessi melari ad avvertire il bisogno di specifici regolamenti, si auto-organizzarono e presso un notaio ne fu dato il crisma della legalità con l’obbligo dell’osservanza. Due Consoli, eletti ogni quattro anni nella chiesa di San Giuseppe, erano addetti alla sorveglianza. Dieci i “capitoli” redatti con un linguaggio fluido e chiaro a testimonianza della sapienza di chi ha vissuto con le api. Si potrebbe dire che da essi affiora l’etica d’una civiltà fiorente da Ragusa a Siracusa, di cui vanno menzionati i paesi di Melilli[3], Solarino, Noto, Avola, Sortino. Un brano del Mastro-don Gesualdo dà indicazioni su un costume del tutto singolare: “La sala stessa era parata a lutto, qual era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche”. L’evento luttuoso era coinciso nella stessa casa, quella dei Trao nobili decaduti, con la nascita di Isabellina: “nella camera di Bianca udivasi un gran trambusto (…); poscia un urlo fece trasalire tutti quanti”. In seguito, il battesimo. Consolo, raffinato scrittore siciliano, ha scritto:
Ecco allora che il nero luttuoso dei drappi trascolora nel bianco della vesticciola battesimale, ecco che la morte è vinta dalla vita; e gli “alveari”, disposti torno torno nella sala come scanni – usanza arrivata nel cuore della Sicilia con gli Spagnoli - simboleggiano questo passaggio, questa metamorfosi, questa vittoria; simboleggiano con l’immagine della “ninfa” o “pupa” (…) la vita che dal buio della cella viene alla luce.
Del resto, anche Vizzini, cittadina che diede i natali a Verga, limitrofa a Chiaramonte Gulfi, era un centro di attività apistica. L’ape, specifica Consolo nell’opera “Di qua dal faro”, è “sapiente” e “generosa”: “per noi raccoglie l’energia del mondo e la ridona in vischio saporoso e inebriante”. Il suo miele, “cibo primigenio e incorrotto”, rigenera; è “la divina ambrosia”.
Federico Guastella
[1] Per l’approfondimento: S. Burgaretta, Api e miele in Sicilia, Edizioni del museo etnoantropologico della valle del Belice, Gibellina, 1982.
[2] Pianta leggera e porosa, spontanea delle ombrellifere: ha il fusto alto fino a due metri circa, i fiori gialli ad ombrello ed è diffusa in luoghi incolti e nei dirupi. Raccolta a maggio, viene lasciata ad essiccare fino alla stagione invernale per essere manipolata e costruita.
[3] Sulla facciata del santuario di San Sebastiano si osserva il medaglione in pietra dove sono scolpite arnie e api. Sullo stemma di Melilli (“mel”) o Avola (“apicula”) compare l’ape. E ad Avola antica la produzione di miele era, al pari della canna da zucchero, una delle più redditizie attività del '600-'700. Nello stemma avolese la presenza di tre api è la testimonianza più evidente della diffusione dell’apicoltura.