- Argomento: Cultura popolare
Terra Matta, di Vincenzo Rabito: «Tanto lettere macare che scrivemmo, non ne arreciviammo, e magari che qualche letra la reciviammo, era tutta scancellata, perché la cenzura, se vedeva che c’era scritto...»
di Federico Guastella
Di Terra Matta (Einaudi “Supercoralli”, 2007), il lungo racconto autobiografico di Vincenzo Rabito (Chiaramonte Gulfi 1899 – Ragusa 1981), affascina l’uomo col suo cogente bisogno di impossessarsi del linguaggio scritto per capirsi e capire gli intrecci, le connessioni degli eventi generatori della sua identità: «Questa è la bella vita che ho fatto il sotto scritto Rabito Vincenzo, nato a via Corsica a Chiaramonte Qulfe, d’allora provincia di Siracusa, figlio di fu Salvatore e di Gurriere Salvatrice, chilassa 31 marzo 1899, e per sventura domiciliato in via Tommaso Chiavola».
Se l’aristocratico baronello Serafino Amabile Guastella aveva dato la parola al villano, commentandone e interpretando le risposte secondo una propria visuale cognitiva, Rabito, invece, si è conquistato con caparbietà e autonomamente il suo modo di comunicare. Egli si è chiuso nella propria “officina” e con orgoglioso prodigio ha prodotto questo suo e nostro libro che non finisce di sorprendere. Aveva in mente don Vincenzo che il suo illeggibile dattiloscritto sarebbe stato pubblicato fino a diventare un best-seller? Sicuramente no; certamente Rabito non era in cerca d’editore. Si deve riconoscere che il processo di autocoscienza di quest’uomo, a un dato momento della sua esistenza, ha fatto crollare difese e resistenze per concretizzarsi nella volontà di trovare il filo d’Arianna lungo sofferenze e da gioie, preoccupazioni e speranze sorrette dalla volontà di combattere, ancorché dalla rassegnazione.
Cosa aveva compreso da illetterato (inalfabeto, si definisce) oltre al valore della scrittura come custodia della memoria? Egli scrive: «se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente da racontare». Il senso dell’esserci sta dunque nelle opportunità di effettuare esperienze. Non lo riguardava la vita come inerzia o come fatto meramente anagrafico. E occorrerebbe partire da tale persuasione, direi sapienziale, per mandare avanti la “lettura” di una personalità che narra vissuti ed eventi tra stenti e fatiche senza perdere l’occasione di esprimere valutazioni in merito alla grande storia che spinge a compromessi e adattamenti per non restarne inghiottiti. Egli coglieva e fissava i suoi pensieri tra il ’68 e il ’75, periodo in cui a Barbiana Don Milani forniva a chi non li possedeva gli strumenti dell’alfabetizzazione culturale. Nasce dalla miseria la vita maletratata e molto travagliata e molto desprezata di Rabito, ed è in tale contesto che egli matura la consapevolezza di irrinunciabili valori. Fece di tutto perché i suoi figli studiassero. Aveva inteso lo studio come il modo migliore perché si potesse sfuggire al destino della spietata selezione di classe. In tale ottica, egli non è stato un vinto malgrado le tante delusioni subite. Forse, per se stesso, non è stato neanche un vincitore, ove si considerino le ferite della vita, le peripezie cui andò incontro: «il mio destino era di vedire tante sofremente e non morire». E non si stancò di maledire il suo destino. Prende così il via la sua scrittura che abbraccia un ampio periodo di storia sociale ed economica: «Il mio piacere era questo: di contare tutte le cose che mi avevino incontrato in vita mia. E tutte le minchiate che io sapeva, alla notte li raccontava».
Con Terra matta ci troviamo dinanzi a una narrazione pubblica e privata nel medesimo tempo. Pubblica, perché il libro offre la rappresentazione partecipata del Paese (“Terra matta” da intendersi come metafora di una società e di un’Italia che non tiene conto di chi è oppresso dal bisogno); privata in quanto l’autobiografia ha più capitoli ricchi di pathosrievocativo, dove dominante è l’affetto paterno con tutte le ragioni del cuore: «E così, questo viaggio io, di Ferenzi a Raqusa, lu ho fatto sempre pensanno ai miei figlie». Dalle sue parole affiora uno spaccato della società italiana che cambia fisionomia: dalla Grande Guerra, cui egli partecipò come ragazzo del ’99 agli anni Sessanta del miracolo economico: confessione a cuore aperto la sua, dove si integrano ironia e riflessione che restituiscono l’immagine di una quotidianità particolarmente ostile. Rabito, pieno di energie e coraggio, coglie al volo le opportunità per svolgere qualsiasi attività lavorativa pur di portare a casa qualche soldo. Egli precisa: “Io ero disperato e bestemmiava quanto non avevo lavoro”. Non avrebbe mai sospettato che allo scoppio del primo conflitto mondiale sarebbe stato chiamato alle armi. L’Appuntato dei Carabinieri non tardò ad arrivare. Giunse nel giorno del Carnevale quando la famiglia, com’era solito a Chiaramonte, si trovava al completo attorno ad una tavola riccamente imbandita: «Quanto allecria che c’era nella famiglia nostra con quella pendola crante piena di maccarrona con il suco di lardo di maiale ! (…) E quanto abbiamo inteso abbossare alla porta e mia madre va a vedere chi è, e vede un appontato dai carabiniere (…). Certo che si doveva partere perché era tempo di querra e se uno non parteva certo che lo potevino magari fucelare».
Da allora, a diciassette anni chiamato sotto le armi, le parole-chiave delle vicende che si susseguono in modo incalzante saranno “bestemmia” e “sfortuna”, oltre che “manciare”. Dunque, un Giobbe siciliano (il Padreterno, quelle che voglino vivere onestamente, in vece di aiutarle li fa morire), al quale spesso i conti non tornavano. Un Giobbe sui generis, che per sottrarsi alle logiche clientelistiche e familistiche era costretto a utilizzare l’astuzia volpina e il tatticismo camaleontico, senza rinunciare in cuor suo allo sguardo critico sulla realtà e senza occultare la genuinità di una bontà da lui spesso manifestata per risolvere e di sanare conflitti. Rabito, assegnato al “69 reggemento Fanteria di marcia, 2 battaglione, 2 reparto Zappatore, zona di querra, per dove si trova”, smitizzava ogni retorica e parlava della censura nella corrispondenza:
«Io diceva e tutte diciammo: “Se ci porteranno lì, siammo sicuro che moremmo e con la famiglia non ci vediammo più!” Tanto lettere macare che scrivemmo, non ne arreciviammo, e magari che qualche letra la reciviammo, era tutta scancellata, perché la cenzura, se vedeva che c’era scritto: “Figlie mieie, state atento ! Quardatete !”, non poteva essere di scrivillo e lo scancellavino. Solo non scancillavino quanto la famiglia scriveva: “Bisogna di morire per la Madre Padria !” E noi ci potemmo mandare a dire “Cara madre, io faccio il soldato per defentere la Madre Patria !” Che io e tutte, nel nostro penziero, diciammo: “Maledetta la Padria, che ci stanno fanno morire prima che antassemo in trencieia…”».
L’esperienza della trincea, nella primavera del 1917, gli rivela il dramma della morte e di ogni illogicità anche sul piano religioso; deliziosamente grottesca la pagina in cui il prete, nell’omelia di Natale, invoca l’aiuto di Domineddio per la vittoria degli italiani. Ridendo, un prigioniero triestino spiegava: «Qualda che sono tutte li stesse li prete, che la domenica passata il nostro prete ci ha detto (…) propia li stesse parole, che il Dio ci aveva a fare una crazia, che l’Austria doveva “scacciare il suo potente nemico” (…) che forse ci sono 2 Patre Eterne, uno è in Italia, e uno ene in Austria…)».
Ha scritto Giuseppe Barone: «Il brusco passaggio dalla campagna iblea e dai suoi ordinati ritmi naturali alla guerra tecnologica impone una profonda trasformazione mentale che mobilita tutte le energie psichiche della giovane recluta nello sforzo di riadattamento comportamentale. La conquista di monte Fiore, gli assalti notturni alla baionetta, la vita in bilico tra tanti morti e feriti costituiscono lo scenario spettrale nel quale si compie il noviziato del soldato Rabito: “tutta la paura che aveva mi ha passato e in poche ciorne sparava anch’io e amazava come uno brecante”. A contatto quotidiano con il massacro, sporchi e affamati dentro le fosse trincerate, bersaglio esposto al fuoco dell’artiglieria nemica e dei gas venefici (da cui ci si difendeva con fumi di paglia bagnata o con pezze intrise di orina), uccidere gli altri diventa l’unico modo per sopravvivere: “in questa carneficina che ci a stato deventammo tutte macellaie”».
Dell’offensiva sul Piave si configura la belva operante nell’uomo: «Più non erimo soldate crestiane, ma erimo deventate pazze.»
Il 4 novembre sulla strada da Bassano a Trento ricorda: «… e ci dovemmo contentare che avemmo vinto la querra. E tutte ci abbiamo quardate in faccia e tutte diciammo: “Ancora manciare per noi non ci n’è. Abbiamo vinto la querra e abbiamo perso il manciare!”». Dal Piave ad Ancona, da Tobruch a Mogadiscio, dalla breve partecipazione al secondo conflitto al congedo anticipato, al duro lavoro nel medesimo periodo bellico entro le miniere di Germania si susseguono incontri e scontri nell’arena d’una quotidianità, dove il successo gli si ribaltava ben presto nel contrario. Eppure, non gli mancò mai l’acume dell’ingegno per tirarsi fuori da ogni inghippo. Da socialista per disposizione d’animo diventa fascista, pur essendo consapevole della retorica mussoliniana: «Io non mi aveva mai voluto maretare perché non aveva avuto maie solde e per non ci tare li mieie figlie alla miseria, come ci l’aveva buttato il bon’arma di mio padre, 7 figlie alla miseria, prima di morire. Ma Mussoline, della miseria, ci codeva, perché più figlie nascevano, luie diceva che più forte deventava l’Italia. Comunista all’indomani della liberazione, perché altremente umposto non lo poteva capitare».
In seguito, fu anche democristiano per sottrarsi alle epurazioni e ai veleni imperanti nel suo paese alla fine del secondo dopoguerra. Infine, missino per sostenere la candidatura di uno dei figli.
Oltre a tutto questo che anche rivela un comportamento picaresco di adattamento e d’allegria, divertimento e donne, dov’è il fascino del libro? In Terra matta, il racconto si svolge attraverso l’articolazione del vernacolo di Chiaramonte Gulfi essenzialmente acustico, terragno, denso di umori e ricco d’una plasticità e dinamicità non comuni per le incidenze di un parlare italiano attinto dai media (il “comunicato” delle notizie, che egli era solito ascoltare alla radio, e poi le trasmissioni televisive alle quali suo malgrado assisteva per accontentare la moglie) e dai continui viaggi e spostamenti che per quei tempi lo facevano “cittadino del mondo”.
Parola ben calibrata la sua, situata tra vernacolo e italiano e con deformazione dell’uno e dell’altro. Dunque, parole siciliane e italiane trasfigurate: non a caso gli studiosi hanno coniato il termine “rabitese” per indicare la sua inconfondibile espressività. Senza atteggiamenti di narcisismo o di ingenue nostalgie, e senza conoscere Borges, Rabito aveva compreso la quasi coincidenza della vita con la scrittura della sua storia.
Federico Guastella